LIUTPRANDO, QUATTORDICESIMO DUCA DI BENEVENTO

di Alessio Fragnito e Vincenzo Antonio Grella, soci di Benevento Longobarda

Nel 751 l’Italia intera era nelle mani del Re dei longobardi Astolfo: con la caduta definitiva dell’Esarcato d’Italia si poneva fine al dominio dell’Impero Romano d’Oriente nell’Italia settentrionale.

Questo evento segna una svolta decisiva non soltanto per il regno Longobardo di Pavia, ma ebbe un impatto molto più profondo sugli assetti politici della penisola. Colpiti alla testa, i domini Imperiali si ritirarono nelle roccaforti meridionali, Sicilia, Calabria e Puglia; mentre nella Campania Napoli divenne il caposaldo della sopravvivenza Imperiale. Nell’Italia centrale i gruppi sociali che avevano sempre orbitato attorno a Ravenna, si strinsero sempre di più attorno all’ultimo territorio rimasto indipendente dal potere di Pavia, ovvero il Ducato di Roma.

A questo punto dobbiamo interpretare il prologo delle leggi di Astolfo, emanate subito dopo il suo insediamento sul trono regale:

Re della stirpe dei Longobardi, essendoci stato consegnato da Dio il popolo dei Romani”1 ,come un chiaro monito politico. Catturando Ravenna Astolfo intendeva assumere il controllo politico e sociale di tutti i territori che fino a quel momento erano stati alle dipendenza dell’ Esarcato tra cui il ducato di Roma. Come ci racconta con toni fortemente negativi il Liber Pontificalis2, Astolfo pretese di imporre un tributo di un solido d’oro per caput, cioè per abitante, con un modo di procedere di chiara ispirazione “Imperiale Romana” (l’imposizione delle tasse), così come di ispirazione romana e imperiale era l’immagine di sé che il re fece imprimere sulle monete auree, coniate in Ravenna conquistata. Essendosi infatti proclamato “rappresentante di Bisanzio in Italia”, gli spettava di diritto chiedere al Ducato di Roma le tasse per garantirgli la protezione, proprio come facevano i bizantini prima di lui. Era più che evidente che gli obiettivi di Astolfo non si fermavano alla mera conquista militare, ma miravano al controllo definitivo di tutti i territori della penisola, non solo quelli ancora in mano agli Imperiali, ma anche i sempre riottosi Ducati Longobardi3.

Il Ducato di Spoleto era retto dal Duca Lupo o Lupone4, il quale era un fervente partigiano di Ratchis. Il Duca spoletino dovette mostrarsi apertamente ostile al nuovo re e molto probabilmente ne tentò di ostacolare i piani. Tuttavia la travolgente vittoria del 751 e la conseguente presa di Ravenna, sacralizzare la figura di Astolfo pietrificando completamente l’opposizione interna. Nel luglio dello stesso anno fu molto facile per il conquistatore dell’Esarcato detronizzare Lupone senza neanche l’uso delle armi, ma semplicemente estromettendo dal potere ed esercitando il controllo sul Ducato di Spoleto, direttamente con l’autorità regia5.

Nello stesso anno, il 751, a Benevento muore il Duca Gisulfo II e gli succede il minorenne Liutprando, suo figlio, che portava il nome del nonno “adottivo”: il Re Liutprando.

Come sappiamo, infatti, durante il regno di Liutprando, i beneventani ebbero l’ardire di nominare un duca senza il consenso del re, il quale per ben due volte scese nel sud Italia, conquistò la città con e impose con la forza del proprio esercito un duca a lui legato da patti di profonda fedeltà. In particolare, come abbiamo già raccontato, la prima discesa dell’esercito nazionale longobardo nel ducato beneventano ebbe come conseguenza la nomina di Gregorio a Duca della città, mentre il legittimo erede al trono, Gisulfo, ancora infante, venne portato a Pavia e cresciuto dal re Liutprando come un suo figlio adottivo. Alla morte di Gregorio i beneventani elessero di nuovo un Duca legato all’assemblea cittadina e contrario al progetto di unificazione nazionale portato avanti dal sovrano, e allora il Re Liutprando scese per la seconda volta e impose sul trono l’ormai adulto Gisulfo, il quale, essendogli molto riconoscente, aveva chiamato il proprio figliuolo come il re Liutprando, il quale, a ben vedere, gli aveva salvato la vita. Paolo Diacono infatti lascia intendere che il partito “autonomista” del ducato beneventano era intenzionato a sopprimere il bambino Gisulfo onde evitare che potesse diventare simbolo della controparte politica. Le cose andarono diversamente e Gisulfo divenne duca, lasciando a suo figlio il trono ducale dopo la sua morte.

A questo punto dobbiamo soffermarci sull’importanza sempre crescente del lignaggio nella scelta del Duca da parte dell’assemblea cittadina. L’essere figlio diretto del duca precedente e poter vantare una discendenza quasi “mitica” erano delle caratteristiche che bastavano a convincere i maggiorenti beneventani sulla scelta da compiere. Eppure gli stessi maggiorenti, preoccupati dalla perdita di autonomia politica, che il Re Liutprando stava cercando di limitare fortemente, non esitano a eleggere per ben due volte due esponenti della loro stessa classe sociale di appartenenza, al fine di sentirsi rappresentati direttamente, onde poter continuare a godere dell’indipendenza politica rispetto alla capitale Pavia.

Ma nel 751 Liutprando è morto da qualche anno e il nuovo re Astolfo sta ottenendo successi militari senza precedenti nei confronti dei bizantini, anche grazie alla riforma militare e a una riorganizzazione dell’esercito su base nazionale e non riservata ai soli longobardi. Ma quando Gisulfo muore, suo figlio Liutprando è ancora minorenne, per cui il governo del ducato viene affidato ad un certo Giovanni, molto probabilmente espressione diretta dell’elite “burocratica” che amministrava il vastissimo ducato. Giovanni governerà 4 anni, dato che nel 755 Liutprando diventa maggiorenne (compie 18 anni) e quindi può governare a tutti gli effetti senza bisogno di un tutore. Tra l’altro non sfugge a nessuno storico il ruolo determinante della madre di Liutprando, la già citata Scauniperga, la quale era una parente stretta del Re Liutprando, data in sposa al duca di Benevento Gisulfo proprio per assicurarsi la sua fedeltà e per legare il ducato beneventano alla propria famiglia. Per questo motivo Scauniperga si mostra sempre leale al progetto di unificazione portato avanti dal Re di Pavia, e quindi doveva essere vista in maniera per lo meno critica da parte dei maggiorenti beneventani, che come abbiamo visto nei capitoli precedenti, scalpitavano per riconquistare una totale autonomia politica.

Nonostante tutto questo e sebbene portasse il nome del Re che aveva iniziato la politica di unificazione nazionale longobarda, il giovane duca Liutprando, non appena diventa reggente, si dimostra autonomo e per nulla subalterno alla corte di Pavia, avvicinandosi al Papato, che si presentava come un’entità politica di grande importanza, capace di determinare alleanze e scatenare guerre e seriamente interessato a boicottare qualsiasi piano di unificazione territoriale longobarda.

Come abbiamo accennato all’inizio, infatti, nello sbandamento generale dell’Italia Bizantina, l’unica entità politica in grado di avere una parvenza di rappresentanza collettiva era quella del Ducato di Roma e del Papa.

La necessità di guardare a nuove alleanze che potessero riempire il vuoto politico e militare lasciato dalla sconfitta dell’esercito imperiale per opera di Astolfo, costrinse il papa a rafforzare la sua alleanza con il regno dei Franchi, dove nello stesso 751 era salito al trono Pipino III, come re di tutti i Franchi.

Benchè i rapporti fra i papi e i Pipinidi erano ormai piu che ventennali, non si trattava di un unico processo lineare. Al contrario fu un consolidamento lungo e non privo di passi indietro e diffidenze reciproche, come dimostra il mancato intervento di Carlo Martello contro Liutprando e l’alleanza esistente fra i due regni, sancita dall’adozione di Pipino.

D’altra parte, però, neanche lo scontro tra il regno di Franchi e il regno dei Longobardi deve essere considerato come ineluttabile, sul fronte occidentale del regno la commistione fra le due società, la franca e la longobarda, era molto forte. Un’importante fonte che ci riporta questa commistione è il testamento del patrizio Abbonde, fondatore del monastero della Novalesa e funzionario franco morto nel 750, i cui possedimenti erano sparsi al di là e al di qua del confine dei due regni. Ciò testimonia la presenza di legami di alleanza e solidarietà tra i gruppi dominanti delle rispettive aristocrazie, legami che non erano facili da troncare6.

La scelta dell’intervento franco venne sicuramente condizionata da diversi fattori, non propriamente facili da individuare immediatamente. La data che più desta sospetti è proprio il fatidico 751.

Mentre Astolfo penetrava in Ravenna, Pipino saliva al trono: questo evento nella storiografia Franca è riportato nel dettaglio e stando agli autori avvenne tramite la cerimonia dell’unzione, nuova per i Franchi, ma di origine biblica e già praticata dai Visigoti e Anglosassoni. L’unzione dei re franchi li poneva sullo stesso piano dei re d’Israele; essi erano i sovrani del «nuovo Israele», ossia la Chiesa. Fin dal 751, i legami ideologici tra il potere dei nuovi sovrani pipinidi e la Chiesa (intesa non come il papato ma come l’interezza della comunità cattolica) sono dunque evidenti. Un simile legame poteva dare spazi politici di ampie vedute, addirittura far scorgere all’orizzonte lo spettro del potere Imperiale7.

Ma stiamo parlando dei rapporti di potere tra i Pipinidi e la Chiesa, non di rapporti tra Pipinidi e il papato. Questi ultimi sembrano aver avuto evoluzioni molto meno limpide di ciò che si pensava in passato.

Sebbene la storiografia Franca riporti un forte legame tra Papato e Regno Franco già dal 751, imputando all’intervento di papa Zaccaria l’ascesa al trono di Pipino8, questo evento sembra però essere stato costruito successivamente dalla storiografia Carolingia. Infatti le vere origini del rapporto tra Pipino e il Papato non vanno ricercate nel mito dell’unzione e nella richiesta di Zaccaria, ma bensì con il pontificato di Stefano II9. L’ipotesi di una parziale riscrittura degli eventi del 751, avvenuta negli ambienti ufficiali franchi, e in effetti plausibile, e spiegherebbe tra l’altro come mai Eginardo, il biografo di Carlo Magno, nei primi decenni del secolo successivo scrivesse che Pipino era stato fatto re «per comando» e «per l’autorità» del pontefice romano Stefano; quella che era sempre sembrata una disattenzione di Eginardo potrebbe essere invece il riaffiorare della sostanza originaria dei fatti10. Tuttavia siamo e rimaniamo nel campo delle ipotesi, quello che è certo è che i rapporti politici tra le due entità in questione furono scanditi dalle opportunità contingenti e non furono il risultato di una presunta linearità storica.

La caduta di Ravenna ebbe come risultato una guerra diplomatica che vide attivo anche l’Impero d’Oriente e che culminò con il viaggio di Papa Stefano II, nel tentativo di recuperare i territori occupati da Astolfo. Stefano fece tappa prima a Pavia, dove ovviamente non venne ascoltato e successivamente si spostò nel regno dei Franchi, ed è qui che sembra che Pipino abbia fatto la sua prima donazione (di cui non abbiamo nessun documento) ossia la donazione di territori a san Pietro e al suo successore in terra11,conosciuta come “Promissio carisiaca”. La conseguenza più importante di questo accordo fu l’intervento militare di Pipino in Italia contro l’esercito di Astolfo che assediava Roma nel 754.

Nonostante le recenti riforme militari volute da Astolfo, l’esercito dei Longobardi non fu in grado di opporsi alle armate dei Franchi, subendo una dura sconfitta dalle di Chiuse di Val Susa e in poche settimane Pavia fu stretta d’assedio. La richiesta di pace da parte di Astolfo fu accolta dietro la promessa di ampie “restituzioni” territoriali a S. Pietro, che includono citta dell’Esarcato, della Pentapoli e del Lazio meridionale, tutti territori sui quali in realtà Chiesa di Roma non aveva alcun diritto pregresso da pretendere (se non per il fatto che facevano parte della diocesi romana)! E’ la prima volta il Liber Pontificalis conia il termine di iustitiae sancti Petri per indicare i territori che “dovevano essere restituiti”12 (e anche questo verbo è una novità) al papa e alla Chiesa di Roma. Si trattava del tentativo di mettere in pratica la famosa “Promissio carisiaca”.

Astolfo acconsentì alle pretese dei vincitori, ma non appena l’esercito Franco valicò le alpi, lo stesso re Longobardo si rifiutò di “restituire” i territori promessi. Ciò portò ad una nuova discesa di Pipino, stavolta nel 756 e ad una nuova sconfitta per Astolfo, mettendo nuovamente in luce la forte debolezza militare del regno dei Longobardi.

Occorre infatti soffermarsi a questo punto sulla “riforma militare” che il Re Astolfo aveva avviato non appena preso il potere, emanando delle leggi squisitamente “militari” con le quali procedeva ad una ridefinizione degli obblighi da parte non solo dei longobardi ma di tutti i cittadini residenti in Italia. La sua riforma si inseriva nel solco di una ridefinizione dei processi di arruolamento che già Liutprando aveva avviato emanando una legge che aveva lo scopo di ridurre le esenzioni dal servizio militare. Come infatti possiamo leggere nell’editto di Rotari, prima di tali riforme non ci erano limiti all’esonero dei longobardi dall’obbligo di prestare servizio nell’esercito. Secondo la legge 21 di Rotari infatti, “se qualcuno rifiuta di andare nell’esercito o in servizio di guardia (definita Sculca) dia 20 solidi al Re e al suo Duca13”, quindi una cifra abbordabile per tutte le tasche. Questa facilità di essere esonerati, unita ad una sostanziale assenza di conflitti, almeno nel nord Italia, devono aver allontanato molti longobardi dall’esercizio delle armi, per cui in molti devono aver perduto dimistichezza con l’arte della guerra. E per un Re che vuole muovere guerra questo è un grande problema. Per questo, come accennato, già il re Liutprando, deciso a riprendere le ostilità con Bisanzio, cercherà di impedire una tale facilità nell’esonero dal servizio militare e lo farà con la legge 83 del suo XIV anno di regno, che recita:

Riguardo tutti i giudici, (ovvero i Duchi e i Gastaldi, i quali amministravano le grandi città) quando c’è la necessità di andare nell’esercito, non esentino altri uomini, ma solo chi ha un cavallo, vale a dire 6 uomini, e prendano quei sei cavalli per le loro salmerie. Degli uomini infimi per condizione, che non hanno né case né terre proprie, esentino dieci uomini e questi uomini facciano per il giudice tre lavori ogni settimana, fino a che il giudice non fa ritorno dall’esercito. Lo Sculdascio esoneri tre uomini che hanno un cavallo, per prendere i tre cavalli per le sue salmerie. Degli uomini minori per condizione esenti 5 uomini che facciano per lui 3 lavori ogni settimana finchè non fa ritorno, come abbiamo detto per il giudice. Il Saltario (Saltarius) prenda un cavallo e dei minori che gli facciano lavori, prenda un uomo e questi faccia per lui dei lavori, come si legge sopra. Se il giudice, o lo sculdascio, o il saltario, che deve andare nell’esercito, presume di esentare più uomini senza il permesso o un ordine del re, paghi come composizione il proprio guidrigildo al sacro palazzo14”.

Liutprando quindi introduce un limite di persone da esonerare dal servizio militare, in funzione della grandezza del centro amministrato: mentre nelle città, amministrate da Duchi e Gastaldi, si possono esonerare fino a 6 uomini di ricca condizione e 10 di condizione misera, nei centri minori questi limiti si abbassavano. Occorre infatti ricordare che gli sculdasci governano piccoli borghi e i saltarii masserie fortificate, per cui la differenza nel numero dei congedati è data da mere questioni demografiche.

Da questa legge capiamo quindi che esisteva una sorta di gerarchia militare che veniva poi applicata anche agli altri aspetti dell’amministrazione, rendendo evidente come la componente militare fosse ancora centrale nella società longobarda e nella sua organizzazione, anche molto dopo l’insediamento nelle città italiane. Il Re è il capo dell’esercito, sotto di lui ci sono i Duchi e i Gastaldi, che hanno compito di procedere all’arruolamento degli arimanni nelle grandi città. A sua volta ogni Duca o Gastaldo ha alle proprie dipendenze più Sculdasci, che reclutano gli arimanni nei centri minori, e diversi Saltarii, responsabili dell’arruolamento nei piccoli assembramenti rurali. In tempo di pace a loro è destinato il compito di amministrare la giustizia e di riscuotere le tasse nei loro territori di pertinenza. Il potere politico e le responsabilità amministrative derivano quindi dal ruolo ricoperto nell’esercito, come da tradizione. Una volta giunti nell’esercito, è altamente probabile che gli uomini arruolati restassero sotto il comando di colui che li aveva arruolati, secondo una modalità di divisione dell’esercito che i longobardi avevano appreso dai bizantini quando furono usati da questi come truppe federate nella guerra greco gotica e che in sostanza vedeva i decani comandare drappelli di dieci unità e i centenari comandare le formazioni di cento unità. Il termine decano, viene usato talvolta nelle leggi longobarde e negli atti pubblici per indicare i governatori di piccoli centri, allo stesso modo del Saltario. Chi veniva esonerato dalla partecipazione alla guerra, doveva comunque cedere un cavallo o, se non poteva permetterselo, ovvero se era di “condizione infima”, prestare servizio di Sculca, ovvero di polizia cittadina, da intendersi sia come “esecutore” delle sentenze giudiziarie emesse dal giudice, sia come rappresentante dell’autorità in assenza del giudice perchè in guerra. Il testo infatti dice che gli esonerati dovranno fare “tre lavori a settimana” per conto del giudice, senza dare indicazioni, sono in pratica al servizio dell’autorità.

Su questo solco già avviato da Liutpprando si inserisce il Re Astolfo, il quale emana come detto delle leggi squisitamente militari, la più importante delle quali (la numero 2) recita:

Circa quegli uomini che possono avere una corazza e pure non ce l’hanno affatto, o quegli uomini minori che possono avere cavallo, scudo e lancia eppure non li hanno affatto, oppure quegli uomini che non possono avere, né hanno, di che mettere assieme, stabiliamo che debbano avere scudo e faretra. Resta fermo che quell’uomo che ha sette case massaricie abbia la corazza con il restante equipaggiamento e debba avere anche cavalli; e se ne ha di più, per questo numero deve avere i cavalli e il restante armamento. Piace inoltre che quegli uomini che non hanno case massaricie ed hanno 40 iugeri di terra abbiano cavallo, scudo e lancia; così come inoltre piace al principe circa quegli uomini minori, che, se possono avere lo scudo, abbiano la faretra con le frecce e l’arco15”.

Non basta quindi presentarsi al cospetto del proprio reclutatore per compiere il proprio dovere di longobardo, è necessario presentarsi in un certo modo e contribuire fattivamente alla preparazione dell’esercito portando cavalli e armi a seconda del proprio reddito. Inoltre la prima parte della legge ci fa capire che, come abbiamo accennato, il secolo e passa di inattività militare, unito alla facilità con la quale si poteva essere esonerati dal servizio militare, aveva “infiacchito” il popolo dei longobardi, molti dei quali avevano perso la dimestichezza con le armi, con la guerra e con l’esercito. Astolfo infatti ci dice che vi sono uomini i quali, nonostante abbiano le possibilità economiche, non sono dotati di armi, perchè, evidentemente, non le sanno usare. Per loro la chiamata alle armi rimane obbligatoria ma, essendo incapaci di usare le armi in maniera efficace, vengono relegati al ruolo di truppe ausiliarie: devono infatti presentarsi con scudo e faretra, le quali, come tutti sanno, non sono armi di offesa (anche se in realtà lo scudo poteva diventarlo se combinato con un’altra arma, tipo spada, ascia, scramasax).

Per quanto riguarda invece i ricchi arimanni, “resta fermo”, nel senso che viene confermata una tradizione non scritta, che essi debbano presentarsi in guerra armati di tutto punto, ovvero con quelle armi che vengono rinvenute nei ritrovamenti archeologici dei corredi funerari. Per i più nobili, quindi, è obbligatoria la corazza, definita “Loricam”, che probabilmente era del tipo della corazza lamellare, la quale assicurava a chi la indossava non solo la protezione dai tagli (che all’epoca potevano fare infezione e condurre facilmente alla morte) ma anche la protezione dalle contusioni, a differenza della “cotta di maglia”, la quale essendo flessibile, difendeva dai tagli ma non proteggeva dall’urto del colpo ricevuto. Gli uomini di media ricchezza, invece, hanno l’obbligo di avere almeno cavallo, scudo e lancia, che sono le armi fondamentali per la battaglia, mentre gli uomini liberi di condizione inferiore, se hanno la possibilità di armarsi, devono avere scudo, arco e frecce con la faretra, che sono le armi da definirsi “ausiliari”, ovvero di sostegno alle truppe corazzate.

Questa tripartizione di natura economica non vale solo per gli arimanni possidenti, ovvero per i proprietari terrieri, ma anche per coloro la cui ricchezza non è limitata al possedimento fondiario, ma si occupano di “negozi” economici, quelli che oggi noi chiamiamo mercanti e/o commercianti. Per loro la legge numero tre emanata da Astolfo impone lo steso obbligo della legge precedente. Recita infatti: “Circa quegli uomini che sono mercanti (Negotiantes) e che non hanno beni fondiari, quelli che sono maggiori e potenti abbiano corazza e cavallo, scudo e lancia, quelli che vengono dopo abbiano cavalli, scudo e lancia, quelli che sono minori abbiano faretre con frecce ed arco16”.

L’equipaggiamento militare, quindi, era a spese di chi veniva chiamato in guerra. Il “grado” di equipaggiamento obbligatorio è relativo alla propria capacità economica: i più ricchi devono presentarsi armati di tutto punto e devono armare anche cavalli in base alla quantità delle loro ricchezze, e costituiranno le cosiddette “prime linee” dello schieramento in battaglia; gli uomini medio-ricchi devono presentarsi con almeno cavallo, lancia e scudo, andandosi a posizionare come “seconde linee” nello schieramento, mentre i meno ricchi devono provvedere ad almeno arco, frecce e scudo e saranno quindi le truppe ausiliarie, che daranno supporto alle truppe schierate.

L’obbligo di partecipare all’esercito o alla Sculca è imprescindibile, per lo meno nelle leggi di Liutprando e di Astolfo: anche se si viene esonerato dall’esercito si devono svolgere lavori di Sculca, ovvero di polizia locale, a meno che non si ceda un cavallo. La guerra è quindi un affare di massa, una questione che riguarda l’intero popolo, e le leggi di Astolfo sono finalizzate a ripristinare questo assunto fondamentale per l’identità longobarda, che invece circa 100 anni di immobilismo militare avevano infiacchito. Sarà proprio questa perdita di dimestichezza con le armi che determinerà la sconfitta ad opera dei Franchi, i quali, invece, non avevano mai abbandonato la mobilitazione di massa e per questo riusciranno a sconfiggere l’esercito di Astolfo, il quale, riorganizzato su base “economica” e non più “etnica” riesce a travolgere facilmente le truppe bizantine ma non può nulla contro i franchi, i quali, come sappiamo, proprio grazie alla loro superiorità militare riusciranno, con il figlio di Pipino, il futuro Carlo Magno, a conquistare gran parte dell’Europa.

Che la chiamata alle armi per i longobardi non fosse più una consuetudine lo capiamo da due lettere che vengono scritte da due uomini liberi che sono obbligati ad andare nell’esercito. Nell’agosto del 755, durante la mobilitazione di Astolfo, un tale Gaiprando, residente a Griciano in provincia di Lucca, donò alla chiesa di San Frediano del suo paesino, una casa massaricia con tutte le terre annesse “perchè sono chiamato all’esercito per andare in Francia”, ovvero contro i Franchi. Qualche anno dopo, nel 769 il pisano Domnolino, in occasione della campagna militare contro Roma ordinata dall’ultimo Re dei longobardi Desiderio, scrive che “poichè siamo incerti del giudizio di Dio e mi è stato comandato di andare nell’esercito”, decide di donare i suoi beni a sua sorella, la quale prende l’abito monastico in questa occasione, e al suo mundoaldo, ovvero l’abate Lutfredo. Sono l’evidenza che non pochi longobardi avessero perso l’abitudine a guerreggiare per cui si sentono “incerti”, e decidono di alienare i propri beni in favore di istituzioni ecclesiastiche (nel caso specifico una parrocchia e un monastero) nella convinzione che, essendo loro poco abili nell’uso delle armi, difficilmente torneranno indietro. Infatti nessuno dei due tornerà a rivendicare i propri beni, ma entrambi moriranno in guerra17.

Nel 757 Astolfo morì in un incidente di caccia. Il suo successore venne scelto con cura dall’aristocrazia, per nulla desiderosa di una nuova guerra contro i Franchi, il suo nome era Desiderio. A detta gli Annali franchi fu lo stesso Pipino a incoraggiare la scelta, molto probabilmente con l’intenzione di instaurare una sorta di protettorato Franco sul regno dei Longobardi18. Desiderio non apparteneva alla bellicosa aristocrazia Friulana, ma era un esponente dell’aristocrazia Longobarda Bresciana, disabituata alla guerra e tendente ad una vita pacifica.

Scopo del suo regno doveva essere quello di tornare ad una “pacificazione” generalizzata, sia con i franchi che con il papato, continuando però nell’opera di riunificazione “nazionale” che Liutprando aveva lanciato. Per questo egli darà in sposa una sua figlia al figlio del Re dei Franchi Pipino, ovvero a Carlo, il futuro Carlo Magno. Il suo progetto, però, al di là della unificazione territoriale, ovvero della possibilità o meno di annettere al Regno longobardo tutti i territori italiani, doveva partire da una unificazione politica, ovvero dalla sottomissione dei ducati autonomi alla reggia di Pavia. Per questo motivo Desiderio seguirà l’esempio di Liutprando e cercherà di legare a sé i duchi del Friuli, di Spoleto e di Benevento.

In particolare, Desiderio guarderà a Benevento come ad un obiettivo primario, considerando il Ducato meridionale alla stessa stregua di uno stato straniero, scegliendo il nuovo Duca della città e dandolo in sposa ad una delle sue figlie. Il nuovo Duca sarà destinato a svolgere un ruolo di primaria importanza per le sorti del meridione d’Italia in generale e di alcune città in particolare, ovvero Benevento e Salerno: parliamo di Arechi II, a cui sarà dedicato il prossimo capitolo della saga dei Duchi longobardi di Benevento.

1 Ahistvlfi Leges Prol. – Le leggi dei Longobardi

2 Liber Pontificalis, I, pp.441.

3 Per un’interpretazione della politica di Astolfo, D. Harrison, Political Rethoric and Political Ideology in Lombard

Italy, in Strategies of Distinction. The Construction of Ethnic Communities, 300-800, a cura di W. Pohl e H. Reimitz, Leiden-Boston-Köln 1998, pp. 250-251.

4 Fu duca di Spoleto dal 745 al 751

5 I Duchi Longobardi ,S. Gasparri, pp. 80-81.

6 Su Abbone, G. Tabacco, La connessione fra potere e possesso nel regno franco

e nel regno longobardo, in I problemi dell’Occidente nel secolo VIII, Spoleto 1973

(Settimane, XX), pp. 133-168.

7 Per l’ideologia dei sovrani carolingi, M. Garrison,

The Franks as the New Israel? Education for an Identity from Pippin to Charlemagne,

in The Uses of the Past in the Early Middle Ages, ed. by Y. Hen and M. Innes,

Cambridge 2000, pp. 114-161, e P. Fouracre, The long shadow of the Merovingians,

in Charlemagne. Empire and Society, ed. by J. Story, Manchester 2005, pp. 5-21.

8 Annales regni Francorum, anni 750-751, e Fredegarii Cronaca continuatio,

IV, 33.

9 R. McKitterick, History and Memory in the Carolingian World, Cambridge

2004, pp. 121-122 e 146-148. La storia della cappella di S. Petronilla fa parte della

recensione franca’ del Liber Pontificalis, ed e contenuta quindi nel manoscritto

viennese che riporta anche la versione modificata della vita di Gregorio III (vedi

piu avanti, cap. V, testo e note 27-28).

10 Eginardo, Vita Karoli, in MGH, Scriptores rerum Germanicarum in usum

scholarum, Hannoverae 1911, 1-3.

11 Liber Pontificalis, I, pp. 447-448, e G. Arnaldi, Le origini del Patrimonio di S. Pietro in Comuni e signorie nell’Italia nordorientale e centrale. Lazio, Umbria,Marche, Lucca, in Storia d’Italia, VII/2, Torino 1987, pp. 117-134.

12 Liber Pontificalis, I, p. 453: Astolfo promette «se omnibus modis […] redditurum

» le citta richieste dal papa.

13Le leggi dei Longobardi, a cura di Azzara e Gasparri, Viella Edizioni

14Le leggi dei Longobardi, a cura di Azzara e Gasparri, Viella Edizioni

15Le leggi dei Longobardi, a cura di Azzara e Gasparri, Viella Edizioni

16Le leggi dei Longobardi, a cura di Azzara e Gasparri, Viella Edizioni

17Citato da Gasparri in “Italia Longobarda”

1Annales regni Francorum, anno 757.