I longobardi ci hanno tramandato la storia del proprio popolo insieme alle leggi che furono emanate dai loro Re. La famosa Historia Langorbardorum di Paolo Diacono non sarebbe mai stata scritta se il noto intellettuale non avesse avuto conoscenza della Origo Gentis Langorbardorum, un racconto mitico che corredava appunto l’Editto di Rotari e le successive promulgazioni legislative. In questa sorta di autobiografia fantasy, i longobardi si tramandavano le proprie origini e senza dubbio lo facevano ben prima di insediarsi in Italia ed apprendere la scrittura e fu proprio da queste pagine, o dalla storia orale, che Diacono trasse spunto per ricostruire il viaggio epico dei longobardi dalla Scandinavia meridionale fino al Sud Italia, attraversando l’Europa e fondendosi o scontrandosi con tanti altri popoli di cultura indoeuropea che ne trasformarono l’identità fino a farli diventare un’organizzazione sociale prettamente militare.

Quando vivevano in Scandinavia, i longobardi chiamavano sé stessi Winili, il cui significato dovrebbe essere quello di cani-guerrieri, adoravano la dea-cagna Frigg/Frea e dovevano avere un’organizzazione sociale non esclusivamente militare, ma ancora imperniata sulla sacralità matriarcale. Erano probabilmente una delle derivazioni della Cultura dell’ascia da combattimento, la versione scandinava della Ceramica Cordata (Corded Ware Culture), a cui si deve l’indoeuropeizzazione del Nord Europa, ovvero l’introduzione delle armi, del cavallo e dell’organizzazione sociale patriarcale tra il IV e il II millennio a.C..

Secondo la leggenda, i winils emigrano dalla Scania sotto la guida di due giovani condottieri, chiamati Ibor e Aio, i quali però non sono dotati di speciali poteri ma addirittura “spesso ricorrevano alla loro madre Gambara per risolvere le loro difficoltà”, come racconta Paolo Diacono, per cui non potremmo escludere che la figura di Gambara sia una sorta di “sacerdotessa” o meglio “sciamana” capace appunto di interpellare gli dei, come fa nella leggenda, e di guidare gli esuli nella sfera religiosa. Appare infatti difficile che la migrazione dei winili, la quale appare come una sorta di versione nordica del ver sacrum delle popolazioni sannitiche,  non avesse elementi sacrali ma si basasse solosul caso: chi avrebbe indicato la strada agli esuli migranti? La presenza di Gambara, con cui i due capi tribù si accordano prima di assumere decisioni importanti, sembra quindi rispondere a questa domanda. Se dunque Frea potrebbe in realtà essere il totem-animale che guidava l’esodo dei winili esiliati, probabilmente Gambara è la sciamana che può interpretarne la parola.

Paolo Diacono racconta:

Quei longobardi a cui la sorte aveva assegnato di spostarsi verso nuove regioni, nominarono loro capi Ibor e Aio, due valorosi fratelli…e si misero in viaggio…in mezzo a loro c’era anche Gambara, loro madre…molto abile nel dare consigli…invasero la Scoringa e vi si insediarono…i vandali intimarono ai longobardi di pagare loro un tributo…Ibor e Aio, d’accordo con Gambara…fecero rispondere ai vandali che avevano intenzione di combattere piuttosto che diventare loro schiavi.

I vandali, secondo una leggenda ridicola che sopravvive ancora oggi, avrebbero implorato la vittoria sui longobardi dal loro dio Gotan, il quale avrebbe risposto che essa sarebbe toccata a coloro che egli avesse scorto per primi alla luce del sole. Gambara invece si sarebbe rivolta a Frea, moglie di Gotan, per chiedere la vittoria dei longobardi e Frea l’avrebbe consigliata di ordinare alle donne longobarde di sciogliersi i capelli sul viso e di pettinarli come se avessero la barba; avrebbe poi suggerito loro di incamminarsi di buon mattino con gli altri guerrieri verso oriente e di fermarsi in modo da essere viste subito da Gotan, ma quando il dio, come al solito, si sarebbe affacciato a guardare dalla finestra verso oriente. Così avvenne, secondo la leggenda. Al sorgere del sole, Gotan vedendo le donne, disse “chi sono questi Longibarbi?” A queste parole Frea suggerì al marito di donare la vittorie a coloro cui aveva già dato il nome e così Gotan favorì i Winili.

Paolo Diacono HL libro primo 3, 7, 8

L’Origo Gentis Langorbardorum, ovviamente, non definisce la storia come una “ridicola leggenda” ma come fatti realmente accaduti tramandati appunto dalla tradizione. Il ruolo delle donne è notevole e questo testimonia come i winili fossero ancora legati ad un’organizzazione sociale matriarcale, nella quale il ruolo delle armi era ancora bilanciato dal ruolo della sacralità nell’ambito dell’organizzazione sociale, una sacralità gestita evidentemente dalle donne. Mentre Ibor e Aio sembrano già dei capi esclusivamente militari, sebbene né l’Origo né Paolo Diacono lo dicano espressamente, la loro madre Gambara appare sempre di più la guida spirituale della tribù e con i due condottieri condivide le grandi decisioni. In particolare l’Origo afferma che i tre pregano insieme la dea e che le donne si schierano accanto agli uomini sul campo di battaglia, dovendo necessariamente combattere anch’esse. Anche se fu l’intervento divino a stabilire i vincitori, come era e come sarà nella tradizione culturale longobarda (come vedremo nel “giudizio di dio”), appare chiaro come i winili non fossero ancora del tutto “indoeuropeizzati” ma conservassero ancora elementi culturali matriarcali. Dopo questo episodio, però, le donne scompariranno dai campi di battaglia, Frea perderà sempre più importanza rispetto alle divinità guerriere, condensate appunto da Wotan/Odino e la loro organizzazione sociale diventerà sempre più militare. Dopo questo scontro, infatti, ne seguiranno degli altri ed ogni scontro costituirà una sorta di ulteriore “indoeuropeizzazione” della propria cultura, per cui l’elemento militare assumerà sempre più importanza.

La testimonianza di tale cambiamento è registrato anche dal prosieguo del racconto mitico che afferma come alla morte dei due condottieri, i longobardi elessero per la prima volta un proprio Re, chiamato Agilmondo, che aveva principalmente poteri militari. Scompare invece la figura femminile della guida spirituale, anzi, nel prosieguo del racconto le donne appaiono come snaturate e nemiche. Diacono racconta infatti che una meretrice abbandonò sette figli e uno di questi venne salvato da Agilmondo, e chiamato Lamissione, il quale fu a sua volta eletto Re e guidò i longobardi verso altri importanti vittorie contro popolazioni nemiche. La più significativa delle sue imprese è il duello contro la più forte delle Amazzoni, che volevano impedire il passaggio ai longobardi oltre le sponde di un fiume. Dopo averla sconfitta, Lamissione guadagna l’attraversamento per il suo popolo e la migrazione può continuare. Già lo stesso Diacono definiva la questione priva di fondamento, essendo anche per lui impossibile che delle amazzoni popolassero la Germania centrosettentrionale. Sembra invece evidente una sorta di ultimo scontro culturale all’interno della stessa tribù longobarda, risolto con l’abbandono definitivo della sacralità matriarcale per l’adozione di un sistema sociale esclusivamente militare e sull’adozione di divinità maschili guerriere.

Più specificatamente, Rotili afferma che “la transizione alla religiosità vanica, basata sui culti della fertilità e propria della condizione agricolo-sedentaria degli insediamenti dei contadini e allevatori (nell’Olimpo germanico gli dei Vani sono patroni di pace, fecondità, piacere e ricchezza) a quella odinica, pertinente ad una struttura statuale di tipo militare quale venne configurandosi in rapporto alle esigenze della migrazione e alla condizione di permanente belligeranza che ne scaturì, venne enfatizzata dal mutamento dell’etnonimo, cui i Winniles, secondo la saga nazionale trasmessa dall’Origo, furono obbligati per aver ricevuto da Odino-Wotan, grazie alla mediazione della saccerdotessa Gambara e della stessa dea Frea (che dunque propiziò la transizione) la vittoria sui Vandali che si opponevano al loro transito verso la Mauringa: la “lunga barba” era uno dei tanti appellativi di Odino-Wotan di cui i Longobardi si riconobbero adoratori”.

La vita quotidiana dei winili scandinavi era scandita dalla rigidità del clima. La terra offriva cereali e poco altro e per questo nella loro dieta doveva occupare un ruolo importante l’attività della caccia, vista l’importanza del cane, un elemento presente da millenni nelle comunità umane, derivato dal lupo, con il quale l’uomo condivide proprio la caccia di massa nel tardo paleolitico. La domesticazione del lupo e la sua trasformazione in cane, risale infatti alle grandi trasformazioni climatiche avvenuti in seguito alla fine dell’era glaciale, ed è accertata archeologicamente fin dal XVI millennio a.C. Con il progressivo riscaldamento del pianeta, per gli uomini abituati a cacciare i grossi mammuth, diventa adesso difficile rincorrere i piccoli animali che il caldo non ha estinto, come ad esempio le renne, ben più agili. La scarsità di cibo farà unire i cacciatori ai lupi solitari che non riescono a sfamarsi. Nasce così l’amicizia tra uomo e cane, per nulla disinteressata, almeno per i primi millenni.

Oltre alla caccia e ad un’agricoltura limitata proprio dal clima, non è da escludere che i winili praticassero anche la pesca, data la pescosità dei mari. Le donne si occupavano dei campi, ma non sappiamo con certezza cosa coltivassero, di certo qualche secolo prima in Scandinavia si coltivava il grano, con cui si faceva una sorta di birra, aromatizzata con miele, mirto e mirtilli (ragazza di Egtved). Ma sappiamo che a partire dal VII secolo a.C. il clima si è fatto più freddo e anche l’agricoltura deve averne risentito. Forse proprio il cambiamento climatico negativo determina una progressiva riduzione delle risorse, che spingerà appunto i winili ad abbandonare la Scandinavia.

I winili quasi certamente usavano l’ascia come arma principale, visto che in quelle regioni l’ascia costituiva un elemento fondamentale della visione del mondo. Il tempo era misurato molto probabilmente in base alle fasi lunari e la religione doveva avere prevalenza di elementi matriarcali connessi alla fecondità e alla vita, di cui Frea è l’espressione tramandata mediante il suo diventare “moglie” di Wotan. A leggere bene la leggenda, infatti, i primi a pregare Wotan/Odino sono i vandali, mentre i winili si rivolgono a Frea, con la quale hanno una sorta di “canale privilegiato” rappresentato appunto da Gambara. Sarà la dea Frea ad escogitare il piano e a favorire i longobardi, mentre Wotan appare invece come una divinità “irraggiungibile” alle loro preghiere, forse perché appunto originariamente la religione dei winili aveva una predominanza di elementi matriarcali. Non a caso nella leggenda nessun cenno viene fatto ad un eventuale padre di Ibor e Aio e quindi marito di Gambara.

Secondo la leggenda, dalla vittoria sui Vandali, i Longobardi guadagnano il nome e la libertà, ma si tratta solo di uno dei tanti scontri con altri popoli con cui occorre condividere le pianure europee. Tra l’altro la conquista della Scoringa fu seguita da una “grave carestia” per cui sebbene vittoriosi, i longobardi furono costretti ad emigrare di nuovo e a dirigersi verso la Mauringa, dove si realizzerà il secondo importante scontro leggendario: quello con gli Assipitti. Anche qui i longobardi fingono di essere più numerosi, moltiplicando i fuochi e le tende del proprio accampamento, e soprattutto di avere tra loro dei guerrieri “cinocefali”, creature mitologiche con la testa di cane (residuo della fase “winnilica”). Nel tentativo di spaventare gli Assipitti, i longobardi ne ottengono la richiesta di risolvere la controversia con un singolo duello e quindi vengono schierati due campioni che si affronteranno in nome dei due eserciti. Il campione dei longobardi sarà uno schiavo a cui viene promessa la libertà: questa invincibile motivazione gli garantirà la vittoria e darà ai longobardi la possibilità di attraversare le terre nemiche e di insediarsi in Mauringa, dove resteranno comunque poco, per raggiungere la Golanda.

Importante è la liberazione dello schiavo, che avviene secondo il rituale della freccia e che va letta come l’inserimento nel proprio popolo di numerosi elementi “conquistati” durante le migrazioni e gli scontri con altre civiltà. Dato che in questa fase la civiltà longobarda sembra essere un’aggregazione sociale basata sulle armi, è chiaro che inserire al proprio interno elementi capaci di guerreggiare rafforza il gruppo di fronte alle minacce nemiche. La consegna della freccia ad uno schiavo rispondeva alla considerazione della libertà come sinonimo della possibilità di portare le armi che era insita nella cultura indoeuropea, di cui i longobardi si sono ormai appropriati.

Per molti anni è stato difficile dire con esattezza a quali regioni attuali corrispondessero quelle raccontate da Paolo Diacono, ma era certo già agli storici del passato che all’abbandono della Scandinavia doveva seguire uno stanziamento sulle coste del Mare del Nord, in una fascia compresa tra il Mar Baltico e la valle del fiume Elba.

Essendo la pianura di fondamentale importanza per l’economia pastorale semi-nomade, i longobardi cominceranno ben presto a seguire i fiumi nordeuropei, attestandosi appunto nella Valle inferiore dell’Elba come testimoniato sia dai numerosi ritrovamenti archeologici, che si estendono dal I secolo a.C fino alla fine del IV d.C., sia dalla loro presenza nelle cronache romane del I e II secolo d.C.

Oggi ad aiutarci nella ricostruzione del cammino dei longobardi vi sono i ritrovamenti archeologici e le ricerche compiute in questi anni, che fanno luce sul loro tortuoso cammino mitologico. Rotili, infatti, identifica la Scoringa con l’isola di Ruegen, posizionata proprio di fronte alla punta meridionale della Scandinavia, da cui i longobardi erano partiti. Quasi al confine con l’attuale Polonia, l’isola di Ruegen costituisce la porta d’ingresso alla regione tedesca del Mackleburgo, che corrisponde quindi alla Mauringa, zona in cui i longobardi transitano per attestarsi nella regione del Lunenburgo (Golanda), seguendo il fiume Elba per sfruttarne le pianure.

Arrivati nella valle inferiore dell’Elba (regione di Amburgo), per i longobardi si apre un nuovo mondo, con maggiori risorse, capaci di sostenere un aumento demografico. Di certo ormai i longobardi sono profondamente indoeuropei e cominciano ad essere definiti come i più feroci tra le tribù germaniche e lo stesso Tacito ne evidenzia la forza dirompente nelle battaglie. Qui però, non ci sono soltanto tribù germaniche ma sono arrivati da poco i romani e contro di loro i longobardi da soli non possono resistere, per questo è certo che da questo momento il popolo dalla lunga barba debba allearsi con altri barbari per assicurarsi la sopravvivenza.

E’ molto probabile che anche i longobardi abbiano combattuto a Teutoburgo, luogo della più disastrosa sconfitta romana contro i barbari, avvenuta nel 9 d.C., che sancì una forte battuta d’arresto all’espansionismo romano e il ripiegamento all’interno del limes del Reno. Ne seguirono per i longobardi alcuni anni di pacificazione, forse anche più di un secolo, durante il quale i longobardi sono federati con le altre tribù presenti sul territorio allo scopo di difendersi collettivamente dalle mire espansionistiche dei romani. In particolare i longobardi sembrano essere tra i più fedeli alleati dei Cherusci, che furono appunto i principali protagonisti della vittoria nella foresta di Teutoburgo, sotto la guida del famoso Arminio. Insieme ai Cherusci, i longobardi sconfiggeranno gli stessi Marcomanni (nel 17 d.C.) e quindi da quel momento possono godere di un lungo periodo di pace e relativo benessere. Secondo Jarnut, invece, l’alleanza coi Cherusci è successiva alla loro vittoria sui romani per cui ne consegue che difficilmente i longobardi combatterono a Teutoburgo.

E’ fondamentale, in questo senso, evidenziare la quasi totale assenza di armi nei corredi funerari delle necropoli della bassa valle dell’Elba a cavallo tra la fine del I e l’inizio del II secolo, proprio nella fase di ripiegamento dei romani e durante l’alleanza con i Cherusci. Rotili chiarisce che tali sepolture prive di armi “sembrano riflettere un clima di sostanziale pace che sarebbe stato interrotto dall’attacco portato in territorio romano, attraverso il Danubio, da Marcomanni e Quadi e dalle conseguenti campagne germaniche di Marco Aurelio (164 – 180)” Etnografia I, 6.

Questo lungo periodo di pace determinò la nascita e/o la crescita di numerosi centri lungo le sponde dell’Elba e nella sua valle inferiore, attestati dai numerosi siti archeologici scavati negli ultimi anni (Darzau, Rieste, Putesen, Hamburg-Langenbeck, solo per citarne alcuni tra i più importanti).

A tal proposito Rotili afferma che “nelle numerose ed ampie necropoli ad urne, i corredi con armi in ferro, oggetti personali e gioielli… risultano correlati a villaggi di 200-300 abitanti che praticavano l’allevamento e la coltura di frumento, orzo, avena, segale, miglio, meli, attestati dai rinvenimenti archeologici. In una fase molto antica gli uomini venivano sepolti almeno con la lancia; nel 5-6% del totale delle sepolture compaiono quindi armamenti individuali più completi, formati tra l’altro dalla lunga spada a due taglienti, da un lungo coltello, dalla lancia, dallo scudo con l’umbone in ferro e con guarnizioni in ferro, bronzo e argento”.

Etnogenesi I, 6

La scomparsa progressiva delle armi nei corredi funerari dei longobardi dell’Elba e la loro concentrazione nelle mani di pochi individui, va comparata con la parallela presenza di alcuni cimiteri sprovvisti di armi, probabilmente da riferire a popolazioni locali che vennero sottomesse dai longobardi armati, ovvero da quel 5% di popolazione che sembra già avere le caratteristiche di nobiltà armata e che poi si strutturerà anche come ceto politico. L’ulteriore presenza di alcune tumulazioni con corredi principeschi (le 2 di Marwendel, Apensen, Putensen) suggerisce una progressiva polarizzazione della ricchezza e del potere militare. Poco alla volta, quindi, all’interno della società longobarda dell’Elba, si formano singole identità capaci di concentrare nelle proprie mani il potere economico e militare, forse grazie allo sfruttamento di popolazioni locali pre-esistenti. Tale nascente oligarchia militare, probabilmente, gestisce anche gli scambi commerciali con le altre tribù del vasto territorio oltre il limes, che sembrano essere meno propense a saccheggiarsi a vicenda da quando sono comparsi i romani e sono costrette a formare alleanze politiche.

Comincia a strutturarsi la divisione dei longobardi nelle tre classi sociali degli arimanni (uomini liberi armati), aldi (uomini semiliberi dediti al lavoro), schiavi. In particolare il periodo di pace deve aver favorito la nascita e/o il consolidamento di una classe sociale non dedita esclusivamente alla guerra, come appunto gli aldi, che fanno comunque parte di una Fara e in questo senso sono da considerarsi semi-liberi.

La società dei longobardi dell’Elba, dunque sembra essere non solo esclusivamente militare ma anche e soprattutto contadina e pastorale. Le pianure fluviali garantiscono il sostentamento e la pacificazione seguita a Teutoburgo favorisce una crescita demografica registrata dagli scavi archeologici. La lenta smilitarizzazione della società longobarda, la nascita di una élite militare, la progressiva stratificazione sociale e l’inserimento dei longobardi all’interno di una sorta di “lega” dei barbari del nord della Germania sono processi evidentemente connessi, riscontrabili nel coinvolgimento dei longobardi nelle “guerre marcomanne” e soprattutto al loro successivo ridimensionamento demografico, che testimonia l’impreparazione a competere contro le legioni romane.

La vita quotidiana dei longobardi dell’Elba doveva essere regolata dalla produzione agricola, dai cicli della pastorizia e dagli scambi commerciali o dai rari conflitti armati con le tribù vicine e con i romani. Armi e vasellame romano di importazione, infatti, sono stati rinvenuti in alcune tombe maschili, e mentre in principio uomini e donne avevano cimiteri distinti, a partire dal III secolo i cimiteri sono comuni. Questo potrebbe essere un indizio della nascita delle Fare, gruppi familiari radunati attorno ai capi militari, che costituiscono l’elemento fondamentale delle successive migrazioni.

Nei villaggi si produceva ceramica e metalli, e probabilmente chi si occupava di questi lavori viveva uno status di semi-libero al servizio del ceto militare e più ricco. Col tempo gli artigiani si specializzano nella produzione di fibule per chiudere le vesti con cui si coprivano dal rigido clima. Dal periodo dell’Elba in avanti, le fibule accompagneranno la produzione orafa dei longobardi per il resto della loro civiltà.

L’arma più comune è la lancia, presente in molti corredi maschili nel primo periodo dell’insediamento dei longobardi nella valle dell’Elba. Sicuramente è un’arma da battaglia e deve essere la dotazione base degli eserciti, in particolare della “massa”. I guerrieri più eminenti, oltre alla lancia, usavano la spada a due tagli, arma micidiale negli scontri ravvicinati, e si proteggevano con lo scudo, il cui umbone centrale in ferro poteva essere usato anche come elemento d’offesa. Compare già adesso il lungo coltello che si perfezionerà in splendidi scramasax nella civiltà materiale successiva. La coltivazione dei cereali e la raccolta della frutta costituiva l’occupazione femminile principale, mentre i maschi si occupavano dell’allevamento, quando non dovevano schierarsi in battaglia. Per ogni villaggio doveva esservi una piccola “casta militare” che si radunava attorno al capo, ma all’occorrenza tutti dovevano imbracciare le armi. Tutto sommato, la vita sulle sponde dell’Elba scorre pacificamente e i longobardi sembrano trovarsi bene, per cui vi restano anche dopo la pensante sconfitta subita dai romani nella seconda metà del II secolo, che deve averne decimato la componente maschile.

Stando alle cronache romane (Historia Augusta), 6000 Longobardi e Obi armati penetrarono nella provincia romana della Pannonia superiore tra il 166 e 167 ma vennero ricacciati indietro dalle legioni romane. In seguito a questo episodio i longobardi, insieme ad altre 10 tribù germaniche, inviarono un ambasciatore (un marcomanno) presso il governatore romano per stipulare la pace.

Da questo momento i longobardi non compaiono più tra i nemici dei romani ed evidentemente falcidiati dalla sconfitta, sono costretti ad un ridimensionamento sostanziale, sia dal punto di vista demografico che socio-economico, dovuta appunto alla decimazione dei guerrieri della tribù. Sarà dunque necessario attendere un’altra generazione per poter riformare un esercito e molti anni, se non secoli per diventare di nuovo numerosi e militarmente temibili. Di questo lunghissimo periodo, infatti, Paolo Diacono non dice praticamente nulla, se non che i longobardi dopo aver abbandonato la Golanda occuparono per alcuni anni Anthaib, Banthaib e Vurgundaib, quest’ultima da riconoscere nel Brandenburgo (zona di Torgau), regione a cui si accede seguendo il corso dell’Elba.

L’Historia Langobardorum racconta che durante questa lunga fase di migrazione, Aio e Ibor muoiono e i longobardi assumono l’usanza di eleggere il proprio Rex, il capo supremo militare, il primo dei quali fu per tradizione Agilmondo, figlio di Aio. Il re morirà in uno degli scontri successivi, quello con i Bulgari e sarà vendicato dal figlio adottivo Lamissione, anch’egli divenuto Re per elezione e non per semplice successione dinastica. Oltre a sconfiggere la più forte delle amazzoni, Lamissione guidò i longobardi alla fondamentale vittoria sui bulgari, animando il proprio popolo e concedendo la libertà a molti schiavi capaci di combattere. Il saccheggio che ne conseguì arricchì di molto la popolazione longobarda.

Ancora una volta la massiccia liberazione di schiavi evidenzia come la gens langobardorum fosse un’aggregazione sociale principalmente militare, per cui la capacità di manovrare armi costituisce il principale elemento di integrazione nei confronti delle popolazioni sottomesse o incontrate durante gli spostamenti.

L’elezione di Agilmondo dovrebbe essere avvenuta tra il 378 e il 415 circa e da questo momento inizia l’elenco dei Re longobardi, ovvero di capi militari supremi capaci di tenere insieme le Fare e soprattutto di guidare il popolo verso imprese difficili. L’anno della sua elezione dovrebbe coincidere con l’inizio della migrazione dalla valle inferiore dell’Elba (la Golanda) alla Boemia (Banthaib) passando per il Brandenburgo (Vurgaib).

Essendo impossibile che Aio e Ibor abbiano vissuto per oltre 500 anni, molti si chiedono come si siano governati i longobardi per tutti questi anni. Si potrebbe ipotizzare che già nella Valle dell’Elba l’organizzazione sociale si basasse sulle Fare, ovvero grandi clan di uomini armati, con le loro mogli, gli schiavi, gli animali e uomini semi-liberi al seguito, capaci sia di spostarsi rapidamente in maniera autonoma sia di combattere, guidati presumibilmente da capifara, ovvero “condottieri” (duces) come i mitici Ibor e Aio, che si facevano seppellire con il proprio corredo militare.

Ad ogni modo è certo che la Fara fosse innanzitutto una divisione legata al movimento, come suggerito dall’etimologia (Fahren = viaggio). Per cui è probabile che le Fare siano nate solo con la necessità di uno spostamento massiccio (così come sarà sul finire del IV secolo), e che, quindi, durante la fase di stanziamento nel bacino inferiore dell’Elba i longobardi fossero divisi in villaggi mentre la strutturazione in Fare sia avvenuta durante la lunga fase di migrazione dall’Elba al Danubio, intervallata da brevi stanziamenti in Boemia e nel Rugiland. Lo stanziamento sulle sponde dell’Elba, infatti, abbraccia un arco di tempo di circa 500 anni, mentre invece la migrazione dall’Elba fino al Danubio occupa uno spazio temporale di 130 anni al massimo (dall’elezione di Agilmondo, avvenuta non prima del 378, alla vittoria sugli Eruli, avvenuta nel 508), anni densi di avvenimenti e, appunto, di migrazioni e scontri militari.

La società longobarda dell’Elba doveva essere decisamente più stanziale e contadina rispetto all’evoluzione in senso profondamente militare che avverrà in seguito all’abbandono dei loro villaggi, i cui abitanti, durante il viaggio, vanno ad aggregarsi attorno a personaggi eminenti, definibili appunto come nascenti capifara. Ben presto l’organizzazione sociale si adegua alla continua necessità di spostamento e di scontri militari e in tal modo la Fara diventa non solo una struttura sociale autonoma negli spostamenti ma anche e soprattutto una struttura dell’esercito. Ma per far sì che ciò avvenga c’è bisogno che la società longobarda sia in continuo movimento e occupata in continui conflitti militari, situazioni che sembrano essere del tutto assenti durante la fase di stanziamento nel bacino inferiore dell’Elba.

Infatti, secondo Jarnut (pag13) “i Longobardi che si inoltrarono a sud mutarono il loro modo di vivere. Da contadini divennero conquistatori e costrinsero le popolazioni sottomesse della Germania orientale e nella Boemia allo status di aldi semiliberi, che svolgevano il lavoro nei campi. Nel medesimo tempo svilupparono una forte monarchia, che dall’inizio del V secolo per sette generazioni ebbe i suoi re nei membri della famiglia di Leti”.

Lo stesso Jarnut non esclude che i longobardi dell’Elba già avessero un Re, ma che la sua figura non si sia tramandata in quanto questo periodo storico è sprovvisto di grandi eventi bellici e di migrazioni. I loro nomi comparirebbero invece nel poema anglosassone Widsith del VII secolo. (pag 10,11) Senza grandi battaglie e senza la necessità di coordinare una migrazione di massa, del resto, la figura del Re si riduce ad amministrare la giustizia e a tramandare la tradizione, che sono comunque elementi indispensabili a garantire la coesione sociale di un qualsivoglia gruppo umano. Secondo Rotili “le sepolture principesche a inumazione potrebbero riferirsi all’esistenza di veri e propri capi politici intorno ai quali avrebbero potuto prendere forma quella tradizione e quella identità solo molto più tardi registrate dalla saga di formazione italiana” (Etnogenesi I,7).

La dispersione territoriale delle inumazioni principesche suggerisce che tali “Re primordiali” non si siano susseguiti in progressione dinastica ma che siano emersi autonomamente come figure politiche partendo proprio dal potere che esercitavano all’interno del villaggio.

Secondo Rotili, l’elezione di Agilmondo come primo re dei longobardi, risponde all’esigenza di dotarsi di un capo supremo prima di intraprendere la migrazione dalla valle dell’Elba alla Boemia, ben sapendo che ne sarebbe conseguito un difficilissimo scontro contro gli Unni (definiti Bulgari da Paolo Diacono), il tutto in un contesto generale di risistemazione demografica delle popolazioni germaniche, connessa agli esiti della battaglia di Adrianopoli (378), in seguito alla quale i romani aprirono le porte del limes e per i longobardi si liberarono spazi lasciati vuoti dagli altri barbari che, spinti dagli Unni, si erano riversati all’interno dei confini dell’impero romano.

Probabilmente la migrazione è dovuta anche alla contemporanea pressione demografica di nuove popolazioni che compaiono nella zona dell’Elba, come i Sassoni, con cui si fondano i longobardi che decidono di restare e di non unirsi alla migrazione.

Di certo Agilmondo viene eletto dai longobardi che decidono di partire, per cui egli è il nuovo condottiero della ri-nascente nazione longobarda ed è per questo che il suo nome viene ricordato dopo 500 anni di silenzio, anche se è probabile che egli fosse già un personaggio politico di primo rilievo nel panorama della gens longobarda.

Il motivo per il quale non conosciamo i re precedenti ad Agilmondo è lo stesso per cui non conosciamo i condottieri dei Winiles prima di Ibor e Aio: si tratta di fondatori di nuovi popoli, che si separano dalla popolazione generale, abbandonano la terra di nascita, che hanno popolato per secoli, e creano in tal modo una nuova identità. Sia i winili di Ibor e Aio che i longobardi di Agilmondo cambiano radicalmente la loro identità di popolo e ne assumono un’altra: i winili abbandonano la religione matriarcale per diventare uno dei popoli di Odino (“lunga barba” era uno degli appellativi di Odino), mentre i longobardi di Agilulfo da contadini si trasformano in guerrieri organizzati attorno a capi militari.

Come ci ricorda Rotili, in Boemia “non sono state rinvenute tracce di uno stabile insediamento riferibile ai longobardi, ma dove alcuni piccoli cimiteri di fine V secolo – primi decenni del VI secolo, denunciano la presenza, accanto ad elementi locali, di portatori della civiltà sviluppatasi lungo l’Elba che risponde all’uso di deporre nella tomba le armi e di seppellire talvolta, col guerriero, anche il cavallo e il cane” (Etnogenesi I, 9). Tali cimiteri ascrivibili ai longobardi, tra l’altro sono disposti in modo da lasciar intendere una loro conversione all’arianesimo o una loro adesione alla nuova “moda” di deporre i defunti in posizione nord-sud e non più est-ovest.

Durante lo stanziamento in Boemia, governano i re Leti e Ildeoc, a cui succede Godeoc, che guidò il popolo nella terra dei Rugi (Rugiland), una zona tra l’attuale Repubblica Ceca (Brno), l’Austria centro-settentrionale (Krems am Donau), la Slovacchia (Moravia). Avendo intercettato il Danubio, i longobardi ne seguiranno il corso fino ad emigrare in Ungheria con il loro settimo re, Tatone.

La migrazione nel Rugiland è certamente conseguente alla sconfitta dei Rugi da parte della coalizione ostrogota guidata da Odoacre, che li stermina nel 487. Il ritorno di Odoacre in Italia favorisce la permanenza dei longobardi nella valle del Danubio e ben presto i longobardi avranno la possibilità di sconfiggere i potentissimi Eruli (Ostrogoti anch’essi), sotto la guida del re Tatone, approfittando dell’impossibilità di Odoacre di correre in loro soccorso. La scomparsa degli Eruli, di cui i Longobardi erano tributari, garantisce alla gens di Tatone di espandersi nella Valle del medio Danubio, arricchiti dal saccheggio dell’enorme tesoro accumulato dagli Eruli.

Paolo Diacono racconta: I, 19, 20

Proprio in quell’epoca scoppiò una grave ostilità tra Odoacre, che già da qualche tempo regnava in Italia e Feleteo, re dei Rugi, insediato sulla riva destra del Danubio, là dove il fiume segna il confine del Norico. Odoacre, radunati tutti i popoli che gli erano soggetti, invase il Rugiland, si scontrò coi Rugi e li sgominò definitivamente, uccidendo lo stesso Feleteo: infine dopo aver saccheggiato tutto il territorio, tornò in Italia con un gran numero di prigionieri. Allora in Longobardi si mossero dai loro territori e si trasferirono nel Rugiland, dove si fermarono a lungo, poiché il suolo era molto fertile. Nel frattempo morì Godeoc, cui successe il figlio Clefi, e, alla morte di questi, l’altro figlio Tatone, sotto il quale i Longobardi partirono dal Rugiland e andarono a stanziarsi ne cosiddetti Feld (campi aperti). Dimoravano già da tre anni in quei luoghi, quando scoppiò una guerra tra Tatone e Rodolfo, re degli Eruli. I due eserciti si schierarono nei campi aperti l’uno di fronte all’altro. I Longobardi li massacrarono: lo stesso re fu ucciso. Così i Longobardi si divisero l’ingente bottino trovato nell’accampamento degli Eruli: Tatone si prese il bando e l’elmo di guerra di Rodolfo. Con quella battaglia finì la potenza degli Eruli, che non ebbero più neppure un loro re. I longobardi, invece, si arricchirono non poco e rafforzarono anche l’esercito: ormai erano pronti ad affrontare nuove guerre, e la fama del loro valore cominciò a diffondersi in ogni contrada.

Secondo Rotili la data dello stanziamento nel territorio abbandonato dai Rugi è da fissarsi al 489 e la loro permanenza rimane sempre precaria almeno fino al 508, anno in cui dovrebbe essersi verificato il vittorioso scontro contro gli Eruli. Avendoli sconfitti, adesso i longobardi sono padroni di una vasta regione, tra le più fertili d’Europa. Non solo, in tal modo entravano di prepotenza nello scenario politico europeo. I bizantini, infatti, adesso dovevano considerare la loro presenza e ben presto ne cercheranno l’appoggio per contrastare i Goti su vasta scala.

La conquista del Rugiland e la successiva distruzione del regno degli Eruli, fa dei longobardi una gens molto ricca, come testimoniato dai ritrovamenti archeologici. I corredi funerari maschili del Rugiland, infatti, presentano la classica spada lunga, lo scudo, la lancia, frecce, speroni, coltelli, fibbie, borse da cintura, pettini, mentre quelli femminili abbondano di gioielli, tra cui molte fibule, orecchini, anelli, che si accompagnano a manufatti di uso quotidiano e strumenti per la tessitura. Le tombe erano talmente ricche che molte di loro già pochi anni dopo il loro abbandono vennero depredate dalle popolazioni locali.

Gli scavi della zona di Tulln, invece, hanno riportato alla luce tre sepolture con cavalli, sacrificati in occasione del funerale degli eminenti personaggi a cui sono da riferirsi. Il loro ricco corredo e la presenza di elementi architettonici (buche per pali in legno) che inducono a pensare che si trattasse di “case funerarie”, inducono lo stesso Rotili a credere che potrebbe trattarsi di veri e propri re. La concentrazione di tre sepolture simili nello stesso luogo induce a pensare che quello fosse proprio il luogo di sepoltura dei Re, o almeno il cimitero dei più “grandi” guerrieri longobardi. Ancora una volta si certifica il consolidamento del potere militare e la tripartizione della società in arimanni, aldi e schiavi. Lo stesso cimitero di Tulln, infatti, è diviso in tre gruppi di tombe: alcune con elementi riconducibili all’élite militare, altre con elementi di media-ricchezza e le terze sprovviste di corredo, da riferirsi ad elementi locali, sottomessi appunto dagli arimanni. (etnogenesi I, 12) In particolare il cimitero di mezzo ospita elementi riconducibili a culture germaniche pre-esistenti, evidentemente “sottomesse” ma non schiavizzate dai longobardi, si tratta quindi di uomini semiliberi che rispecchiano perfettamente il concetto longobardo di “aldo” semilibero.

Secondo alcune ricostruzioni ipotetiche fatte negli anni da associazioni storiche, è plausibile che durante le battaglie i longobardi avanzassero verso il nemico divisi per Fare e che ogni capofara guidasse il gruppo ponendosi come l’elemento centrale di un cuneo umano fatto di lance e scudi. Accanto al capofara si posizionavano i guerrieri migliori, i più nobili e quindi maggiormente armati e dietro di loro via via tutti gli altri componenti della Fara in base alla loro capacità di combattere e possibilità di armarsi (la formazione a cuneo, comune a molti barbari, è compatibile con le leggi militari di Astolfo, di cui ci occuperemo). Lo stesso doveva valere per i cavalieri, i quali costituivano comunque una parte minoritaria dell’esercito. Di certo in tutti i racconti dei cronisti romani si nota sempre come il capo dei barbari sia il primo a partire all’assalto del nemico, per cui ne consegue che anche per i longobardi doveva essere lo stesso. Essendo organizzati in Fare, è chiaro che ogni capofara dovesse costituire il capo militare del proprio raggruppamento e dovesse quindi guidare ed animare i suoi guerrieri contro il nemico.

Al di là delle ipotesi ricostruttive, gli storici sono concordi col definire la Fara longobarda come una “divisione” dell’esercito, e dato che presso le culture germaniche antiche il concetto di esercito è fuso con quello di popolo, ne consegue che le Fare erano non solo un’organizzazione militare ma anche e soprattutto sociale, dato che erano composte anche dal seguito di donne, schiavi, semiliberi e animali che gli “arimanni” si portavano dietro e disponevano in base alle esigenze militari o migratorie. Non tutti gli uomini della Fara erano armati, ma solo gli arimanni (da Hari + Man = uomo in armi), che venivano considerati uomini liberi. Gli altri erano considerati aldi (ovvero semi-liberi) o schiavi. Le donne, come in tutte le civiltà patriarcali indoeuropee, dipendevano da un uomo (suo marito o un suo parente), sebbene originariamente non sembra che fosse così, come prima accennato.

Probabilmente in questa lunga fase migratoria comincia ad assumere importanza anche il lignaggio, ovvero la discendenza dei capifara, per cui anche lo stesso Rotari, nel redigere il suo Editto, sente il dovere di elencare tutta la propria discendenza, per sette generazioni, usanza che sembra essere correlata anche alla “consegna dello scramasax”, una cerimonia che decretava l’ingresso nel mondo degli adulti dei giovani longobardi. Eppure la massiccia liberazione di schiavi realizzata dai re longobardi testimonia come la società longobarda fosse comunque aperta a accogliere etnie diverse ma unite dalle armi e da un vago riconoscersi in entità divine comuni.

La vita quotidiana dei Longobardi del medio Danubio è scandita dalla produzione agricola, dalla vasta pastorizia e dalla guerra. Dopo la vittoria sugli Eruli, i longobardi sono ormai ricchissimi e i corredi funerari lo dimostrano. La società è multietnica ma la stratificazione sociale si rafforza e i cosiddetti “aldi” appaiono sempre di più come appartenenti a popolazioni locali sottomesse. Tali popolazioni pre-esistenti erano romanizzate già da tempo, per cui i ricchi longobardi iniziano a conoscere ed apprezzare la civiltà romana tardo-antica. La classe degli arimanni si specializza e si consolida, ma contemporaneamente la sete di conquista dei nobili rampanti spinge la società a concepire la conquista come elemento basilare del proprio benessere. Forse è proprio per questo che dopo pochi anni i Longobardi si lanceranno in un’altra grande impresa militare.

Secondo Rotili, “ i longobardi rimasero a nord del Danubio nelle attuali Moravia e Austria inferiore, in parte fino al 527-527, in parte fino al 546-547. All’indomani della morte di Teodorico nel 526, si trasferirono nelle province del Noricum ripense e della Pannonia prima, guidati dal nuovo re Wacone, che in circa trent’anni di governo, strutturò un ampio regno inserito nello schieramento politico bizantino” (II, 1).

In realtà Wacone non compare nell’elenco dei Re longobardi allegato all’Editto di Rotari, dato che egli fu un usurpatore, avendo ucciso suo zio Tatone e conquistato il regno in maniera illegittima. Di certo fu una figura particolarmente decisa sul piano politico e grazie ad una politica di matrimoni combinati riuscì a rafforzare in confini del regno. Sottomise le popolazioni della Svizzera (che Paolo Diacono definisce Suavi, cioè Svevi) e riuscì a stringere un patto di alleanza con l’imperatore bizantino Giustiniano. Fece del regno longobardo una vera e propria entità politica che si estendeva dalla Boemia all’Ungheria.

Quando Wacone morì, intorno al 540, divenne re suo figlio minorenne Gualtari, sotto la reggenza di Audoino, della famiglia dei Gausi, il quale dopo sette anni, alla morte del giovane erede, si autoproclamò Re. Audoino continuò la politica di rafforzamento del regno, cercando di consolidare l’alleanza con Giustiniano sposando una figlia del re dei Turingi e di una nipote di Teodorico, matrimonio combinato proprio dall’imperatore per schierare i longobardi contro Franchi e Ostrogoti. In seguito al matrimonio, infatti, i longobardi potevano iniziare ad avanzare pretese sia sul regno dei Turingi, che era stato inglobato dei Franchi, sia sui possedimenti ostrogoti in Italia. La prima reazione immediata fu l’acuirsi del conflitto tra Longobardi e Gepidi, che si affrontarono in una epica battaglia nel 551, che si risolse a favore dei longobardi anche grazie all’intervento di Amalafrido, un condottiero turingio riparato a Bisanzio.

Nell’epica battaglia contro i Gepidi, compare per la prima volta la figura del giovane Alboino, figlio di Audoino, che uccide il figlio del Re dei Gepidi e poi si reca dal padre a rivendicarne le armi.

Paolo Diacono (I, 23) racconta che “esplose intanto l’ostilità da tempo latente tra i Gepidi e i Longobardi, e da entrambe le parti si cominciò a preparare la guerra. Si venne così alla battaglia, ma l’esito fu a lungo incerto poiché ambedue gli eserciti combattevano valorosamente e nessuno riusvica a vincere; a u ccenrto punto però si trovarono di fronte Alboino, figlio del re Audoino, e Turismondo, figlio di Turisindo, re dei Gepidi: Alboino con un colpo di spada uccise il suo avversario disarcionandolo. I Gepidi, vedendo a terra il figlio del re, che era il loro sostegno in guerra, si persero d’animo e cominciarono a fuggire”.

I bizantini, a quel tempo, erano impegnati nella guerra per la riconquista dell’Italia, su cui Giustiniano aveva basato il suo progetto politico di risistemazione dell’Impero, iniziata nel 535 dal generale Belisario. La guerra contro i Goti si protraeva più del previsto per via delle abilità militari del loro nuovo re Totila, eletto nel 541, che era riuscito anche a saccheggiare Roma nel 546. I bizantini erano quindi alla ricerca di validi alleati da schierare contro Goti e Franchi, che combattevano al fianco dell’esercito di Totila.

E’ in questo contesto che Giustiniano combina il matrimonio con cui spinge Audoino a schierarsi contro i Franchi e Goti, ma è soprattutto per questo che lo stesso imperatore concede ai longobardi la provincia della Savia (valle del fiume Drava), corrispondente a Slovenia e Carinzia, nella quale si insediano presumibilmente tra il 547 e il 548 (Jarnut).

L’alleanza politica tra longobardi e bizantini diventa quindi un’alleanza militare, come testimoniato dal fatto che un anno dopo, nel 552, ben 5500 guerrieri longobardi sono inseriti nell’esercito di Narsete che sconfigge definitivamente Totila nella battaglia di Busta Gallorum in Umbria. La capacità di guerreggiare dei longobardi doveva essere talmente apprezzata che anche nel 553 truppe ausiliarie longobarde combatterono al fianco dei bizantini contro i persiani (Jarnut) nell’area mediorientale del Mediterraneo, quindi in contesti decisamente “esotici” per i discendenti degli scandinavi winiles.

Anche dopo la fine della minaccia gotica, i bizantini chiedono l’impiego di truppe militari per scacciare dall’Italia le truppe franche di Buccellino e Amingo, evidenti residui delle truppe di supporto ai Goti di Totila. La battaglia decisiva fu combattuta presso il fiume Volturno, in Campania, molto probabilmente nel 554

Evidentemente il loro impegno non deve essere stato ben ricompensato, visto che dopo quest’evento i longobardi si avvicinano ai Franchi, grazie al matrimonio combinato da Audoino tra suo figlio e Clodosvinta, una figlia del re franco Clotario I. Si avvia in tal modo una rottura tra longobardi e bizantini, che esploderà però solo nel 565, quando i bizantini aiuteranno i Gepidi a prendersi la rivincita contro i longobardi.

Essere alleati dei bizantini, in effetti, non doveva essere molto semplice: l’esercito romano era una struttura complicatissima e piena di ritualità e formalismi (come tutta la società bizantina) per cui era difficile riuscire a mantenere le proprie strutture militari derivate dalla tradizione “barbarica” del nord Europa. Ad ogni modo anche i longobardi assumono cariche militari bizantine, tra cui la carica di Dux, che meglio si addiceva a far convivere tradizione barbarica e organizzazione imperiale, e quella di Comes, che pure rispondeva all’esigenza di strutturare organizzativamente la tradizione del “seguito” del personaggio eminente (il Comitatus). Anche i longobardi quindi adottano tali cariche militari di derivazione bizantina: in testa all’esercito c’è il Re, sotto di lui i duces (i duchi) e sotto di loro i comes (conti). Il titolo di Duca sintetizzava bene il concetto di “condottiero” che i longobardi avevano fin dai tempi di Ibor e Aione e che era incarnato dai “capifara”, sempre più potenti in seguito alle tante vittorie militari; mentre il titolo di Conte e ancora di più il concetto di “comitatus” di armati, di cui il conte era appunto perno, legittimava l’oligarchia militare che s’erano strutturata nelle migrazioni e ancora di più nei conflitti recenti.

La partecipazione dei longobardi alla guerra greco-gotica come esercito federato dei bizantini, è testimoniata dai cronisti dell’epoca, in particolare da Procopio di Cesarea, che fu anch’egli un ufficiale dell’esercito bizantino, il quale li definisce “nefandissimi” e li giudica estremamente barbari e rozzi. Eppure il loro apporto alla guerra fu determinante, visto che con il loro aiuto i bizantini vinceranno definitivamente contro le truppe ostrogote di Totila e porranno fine alla guerra. Ma l’Italia che i bizantini hanno riconquistato è ormai un cumulo di macerie, per cui sembra difficile credere a Procopio quando racconta che il generale bizantino Narsete, licenziato dal suo compito, pieno di rabbia e rancore, per fare un dispetto ai bizantini, abbia invitato i longobardi ad invadere l’Italia inviandogli diverse bontà che la penisola poteva offrire.

Ad ogni modo i 5500 longobardi armati per combattere in Umbria dovevano aver già attraversato l’Italia per cui avevano avuto modo di vedere da soli la ricchezza dell’ambiente italiano, per cui non fu certo Narsete a fargli “scoprire” il bel paese. Inoltre, stando alle cronache romane, i longobardi attraversarono l’impero bizantino per guerreggiare contro i persiani, per cui, per quanto fossero rozzi e barbari ormai avevano una visione politica generale ed evidentemente i loro re ragionavano in termini politici. Già Wacone sembra essere un uomo politico a tutti gli effetti, visto che realizza ben 4 matrimoni a scopi politici. La discesa in Italia, quindi, fu una scelta politica e ben poco poté influire un ipotetico cesto di doni che Narsete gli inviò per convincerli a sottrarre di nuovo l’Italia ai bizantini.

La permanenza dei longobardi nel Rugiland e nella Pannonia è di fondamentale importanza per la cosiddetta “romanizzazione” dei costumi longobardi. In effetti i longobardi si trovano già dal 488 (anno dell’invasione del Rugiland secondo Jarnut) in territori che hanno subito per secoli l’influenza romana e quando poi tra il 527 e 547 concludono la conquista della Pannonia, si trovano a governare un vasto territorio che “manteneva una indebolita infrastruttura romana nella forma di residui del sistema economico sociale” (Jarnut pag 26). Entrando fisicamente all’interno della civiltà romana tardo-antica, i longobardi rimasero separati dal contesto, insediandosi in unità militari nei pressi o all’interno di “apprestamenti fortificati” che assicuravano il controllo del territorio. Da questi presidi, i longobardi riscuotevano le imposte agli abitanti locali e quindi entravano in contatto ogni giorno anche con le realtà urbane tardo-antica, per cui Jarnut può affermare che (pag 27) i longobardi “svilupparono già in Pannonia i primi elementi del sistema di governo territoriale che avrebbe poi caratterizzato la fase iniziale della loro conquista in Italia”.

La ricerca condotta in Austria, Ungheria e Slovenia ha evidenziato che casse e inumazioni dei più agiati, talvolta realizzate con il Totenbrett, una sorta di letto funerario su cui veniva steso il defunto, erano spesso sormontate da una struttura lignea che simulava la capanna usata in vita, secondo la consuetudine rilevata già a nord del Danubio. In area sud-danubiana i corredi funerari femminili sono caratterizzati da fibule a S usate in coppia per fissare l’abito o il mantello all’altezza delle clavicole, da cinture con fibbie in ferro, in bronzo o in metallo pregiato, da un cingulum o da catenelle sospese alla cintura cui erano appuntati amuleti e oggetti come fuseruole, chiavi, coltellini, conchiglie, perle vitree, sfere di cristallo di rocca racchiuse da una montatura d’argento nonché fibule ad arco in funzione di amuleti: si tratta dei cosiddetti pendenti di cintura che le donne longobarde usarono per decenni dopo l’arrivo in Italia. Funzioni di rilievo nella società sono affidate agli arimanni, sepolti con le armi (spada, lancia, scudo) che ne simboleggiano lo status e la funzione militare, con il pettine in osso e con una piccola borsa contenente oggetti d’uso personale che era sospesa alla cintura recante la fibbia con decorazioni in argento e in oro. Completano le deposizioni offerte di viveri e bevande cui rinviano le bottiglie e le brocche in ceramica.” Etnogenesi II, 3, 4

Paolo Diacono racconta che “morto Audoino, i longobardi non esitarono ad eleggere all’unanimità Alboino, che fu così il loro decimo re. La fama del suo valore, del resto, si era sparsa dovunque e lo stesso re dei Franchi Clotario, volle avere l’onore di dargli in sposa sua figlia. Nel frattempo era morto il re dei Gepidi, Turisindo, e il suo successore Cunimondo, desideroso di vendicare le antiche offese, aveva rotto l’alleanza con i longobardi, preferendo la guerra alla pace. Allora Alboino strinse un’alleanza perpetua con gli Avari e si accinse a combattere. Mentre i Gepidi incalzavano da ogni parte, gli Avari invasero il loro territorio, secondo gli accordi stretti con Alboino. A questa notizia Cunimondo, vedendosi assalito da ambedue le parti, si sentì perduto: tuttavia esortò i suoi uomini ad affrontare per primi i longobardi. Attaccò dunque battaglia con tutte le sue forse, ma alla fine venne sconfitto dai longobardi, che fecero una tale strage di Gepidi da lasciarne in vita uno solo perché andasse a riferire l’esito della guerra. In questa battaglia Alboino stesso uccise Cunimondo e con il suo cranio si fece una tazza per bere. Fece inoltre prigioniera sua figlia Rosmunda, insieme ad un gran numero di persone; in seguito la prese in sposa, e fu la sua rovina, come si vedrà. Si narra che durante il suo regno furono fabbricate armi di tipo particolare”

Paolo Diacono non dice però che due anni prima di questa battaglia, databile al 567 (Rotili), i longobardi erano stati sconfitti dai Gepidi, aiutati in questo dai bizantini; né chiarisce quali fossero i risvolti degli accordi tra Alboino e gli Avari. Di certo possiamo affermare che Alboino chiede l’intervento degli Avari in virtù della recente sconfitta subita contro Gepidi e bizantini, avvenuta nel 565, inoltre possiamo supporre che negli accordi ci fosse la spartizione dei territori gepidi, perché altrimenti sarebbe inspiegabile l’intervento avaro. Infine, occorre ricordare che soltanto un anno dopo la trionfale vittoria sui Gepidi, Alboino decide di dare avvio alla migrazione di massa verso l’Italia. Nel 568 (o al massimo nel 569), infatti, i longobardi valicano le Alpi Giulie e penetrano in Friuli utilizzando ciò che resta delle strade romane.

Prima di partire, Alboino invita i Sassoni ad unirsi alle sue schiere (risponderanno positivamente in oltre 20.000, compreso donne e bambini) e stringe un patto con gli Avari in base al quale quest’ultimi si impegnano ad accogliere di nuovo i longobardi qualora la loro impresa fosse fallita.

Si tratta di un vero e proprio esodo. Secondo Rotili (III, 1) “Alboino era a capo di un grande esercito a dominanza longobarda formato anche da un’aliquota degli sconfitti Gepidi e inoltre da Bulgari, Unni, Sarmati, Sassoni, Turingi, Svevi e Romani delle province danubiane; alla spedizione, seguito dalle cospicue mandrie, partecipava l’intero popolo: probabilmente meno di 200.000 unità, un numero non trascurabile considerato che la presenta degli Ostrogoti in Italia è stimato poco più della metà, o, forse, qualche decina di migliaia in meno”. Ancora una volta il popolo longobardo si autodefiniva come un’aggregazione sociale su base militare, stavolta su larga scala. La conquista del bottino dei Gepidi e la fama di invincibile condottiero acquisita da Alboino devono aver avuto un effetto calamita sulla spedizione di Alboino.

Jarnut stima tra 100.000 e 150.000 l’esercito di Alboino, di cui almeno 20.000 Sassoni, che però ritorneranno in Italia qualche anno dopo. Spalmando questa popolazione sul territorio italiano e considerando che i duchi che eleggeranno Autari erano 35, a cui corrispondono eguali città, e stimando in almeno un centinaio gli avamposti strettamente militari ne consegue che ogni corte urbana longobarda doveva ospitare duemila longobardi, di cui un 5% circa costituito da élite militare che andrà ad occupare i luoghi di prestigio e maggiormente difendibili di ciò che resta delle città romane. Ogni fara quindi potrebbe essere stata composta da un numero compreso tra i 2.000 e i 3.000 componenti.

I LONGOBARDI IN ITALIA

Paolo Diacono racconta che “i longobardi lasciarono la Pannonia con mogli, figli e bagagli per occupare l’Italia. La loro permanenza in Pannonia era durata quarant’anni: ne uscirono nell’aprile del 568, e precisamente il 2 aprile, giorno successivo alla Pasqua. Durante il viaggio molti altri popoli si unirono ai Longobardi. Alboino, senza incontrare alcun ostacolo, entro nel Veneto e occupò il castello di Forum Iulii (Cividale del Friuli) e pensò di lasciarvi un duca (suo nipote Gisulfo). Gisulfo dichiarò che non avrebbe accettato l’incarico se prima non gli fosse stato concesso di scegliere personalmente le fare che dovevano fermarsi con lui; la sua richiesta fu accolta. In conseguenza di ciò ebbe il titolo di Duca e Alboino esaudì generosamente anche la sua richiesta di una mandria di buone cavalle. Alboino in breve tempo conquistò Vicenza, Verona e le altre città del Veneto eccetto Padova, Monselice e Mantova. Dopo aver invaso la Liguria (comprendente anche all’attuale Lombardia occidentale), Alboino entrò in Milano il 3 settembre 569. Poco dopo conquistò tutte le città della Liguria eccetto quelle che si trovano sulla costa. Nel frattempo Ticino (Pavia) che era assediata ormai da tre anni, continuava a resistere. Alboino allora fece avanzare i soldati e occupò tutte le città della Tuscia, eccetto Roma e Ravenna e qualche altra fortezza che pure si trovava sulle coste. Infine dopo tre anni e alcuni mesi di assedio, Ticino si arrese ai Longobardi”.

Quando Alboino decide di invadere l’Italia, la società longobarda è ormai guidata da una ricca e rampante aristocrazia militare, arricchitasi coi bottini dei popoli sconfitti e fiduciosa nella propria capacità di conquista. Attorno a questa sorta di oligarchia militare, portatrice e incarnazione della “tradizione nazionale”, si raduna il resto della popolazione, secondo il principio indoeuropeo del “seguito”, ovvero della dipendenza di natura militare e parentale, un seguito che i longobardi definivano Fara e che era “un’associazione in movimento” (Jarnut), “una comunità in viaggio dei guerrieri e del loro seguito familiare (Rotili III, 3)”. Composta da diversi nuclei familiari, legati tra loro dalla convinzione in una discendenza comune, ogni Fara poteva raggiungere le migliaia di persone, dato che era comunque un’associazione aperta, per quanto i gruppi parentali fossero chiusi e legati alla “linea” di sangue,

Innanzitutto la Fara è composto da longobardi armati, tra i quali vi era comunque una sorta di differenziazione, per cui gli “arimanni” potevano essere ricchissimi ma anche nullatenenti, ovvero possessori solo del proprio scramasax e della lancia con cui partecipare all’assemblea militare che era considerata la massima espressione della rappresentanza nella società longobarda, e forse è anche per soddisfare la sete di ricchezza della gioventù militare che Alboino si lancia alla conquista dell’Italia. Successivamente la legislazione longobarda estrometterà dall’esercito e quindi dall’assemblea popolare gli arimanni troppo poveri, ovvero incapaci di armarsi adeguatamente.

Nella Fara al seguito dei capi militari necessariamente vi devono essere anche uomini non armati, che non sono considerati membri della “nazione longobarda” ma che costituiscono un importante elemento dell’organizzazione sociale, una sorta di ceto produttivo che vive in una condizione di semilibertà e che è costituita da popolazione sottomessa nel corso delle migrazioni, un ceto definito “aldes” o “aldiones” nella posteriore tradizione giuridica, che col proprio lavoro libera gli arimanni da qualsiasi occupazione che non sia la guerra. Al seguito dei capi militari, da definirsi appunto come “capifara”, vi sono infine gli schiavi, persone adibite a lavori infimi ma necessari alla vita quotidiana che di certo devono aver seguito, almeno in massima parte, i propri padroni nella migrazione. Ovviamente nel “seguito” vi sono anche le donne: le mogli degli oligarchi, che senza dubbio vivevano una condizione di agiatezza, almeno a giudicare dai monili rinvenuti; le mogli degli arimanni semplici, che quindi potevano vedere variare la propria condizione economica; le mogli degli aldiones, che facevano parte del ceto produttivo e che quindi erano impegnate nella produzione economica; le schiave, che coi loro compagni condividevano i lavori umili e la condizione di inferiorità. Infine, al seguito vi era anche il bestiame, per cui l’esercito di Alboino era una vera e propria società in movimento.

Ai longobardi, come attestato da più fonti, si uniscono altre decine di migliaia di barbari, tra i quali la percentuale di guerrieri doveva essere ben cospicua, per cui l’impatto sulla lacerata difesa militare bizantina in Italia non poteva che essere dirompente. A questo aggiungiamo che la penisola era stata devastata da una peste nel 566 che aveva falcidiato la popolazione e che tornerà a mietere vittime anche tre anni più tardi.

La migrazione verso l’Italia assume i caratteri propri di una conquista militare: in particolare il saccheggio sembra essere l’unità distintiva delle orde di Alboino e talvolta si ha l’impressione, specie nel caso della formazione dei Ducati di Spoleto e Benevento e di altre imprese di singoli duchi, che il Re non abbia il controllo delle sue truppe, anche alla luce della composizione così varia dell’esercito e del desiderio di conquista e ricchezza che animava l’oligarchia militare, in costante crescita per via delle continue conquiste in Europa.

Il ceto militare, composto appunto dai capifara, definiti militarmente come duces, comprendeva, oltre ai comes, anche i centenari e i decani, che rappresentavano i capi di raggruppamenti militari più piccoli, composti originariamente da cento e dieci unità come suggerito dai nomi, ma è probabile che questo numero sia variato in base alle esigenze e alle possibilità di reclutamento. Questi centenari e decani, una volta terminata la conquista e iniziato il governo del territorio, dovevano presumibilmente presidiare le vaste regioni amministrate dai duchi in forma di Hari-Berg, ovvero di presidi armati, arroccati all’interno di costruzioni pre-esistenti oppure con piccoli accampamenti che poi si trasformano in torri d’avvistamento e costituiranno la base per l’incastellamento della penisola, in particolare nel meridione.

Quando Alboino conquista Cividale del Friuli, lascia la città a suo nipote Gisulfo, già marpahis, ovvero custode dei cavalli regi (Jarnut), insieme ad alcune fare che egli può scegliere tra le tante che compongono il popolo/esercito longobardo. In particolare Paolo precisa che Gisulfo occupa il castello, ovvero la parte più fortificata della città, da dove governare un vasto territorio con la forza delle armi, proprio come nelle migrazioni precedenti. L’assegnazione di Cividale a Gisulfo, ci dice Paolo Diacono viene fatta “secondo la tradizione”, per cui ne deduciamo che per ogni città conquistata i longobardi vi si insediavano al seguito di un Duca che aveva illimitati poteri militari, sottraendo in tal modo alcune Fare al grosso dell’esercito, per cui nel corso dei tre anni e mezzo di conquista militare, il numero dei conquistatori deve essere diminuito di parecchio, dato che ad ogni conquista di un centro urbano o di una fortificazione seguiva l’insediamento di alcune delle Fare dell’esercito.

A Cividale come ovunque, l’oligarchia si rinchiude nel luogo maggiormente fortificato, ereditandolo dalle precedenti guerre o rinsaldando costruzioni distrutte, e attorno a loro la società longobarda si va ad innestare su ciò che resta della precedente organizzazione sociale tardo-antica. In particolare i longobardi già con Alboino sembrano applicare la pratica della hospitalitas ovvero la resa di un terzo dei prodotti da parte dei grandi proprietari terrieri verso gli occupanti, tradizione risalente allo stanziamento dei barbari nell’impero romano, anche se è difficile che tutti i nuovi conquistatori si attenessero alla regola del terzo e non stabilissero la quota a piacere, almeno nella prima fase. L’assegnazione delle città e delle regioni circostanti ai duchi dell’esercito, quindi risponde a criteri di meritocrazia militare e non a legami familiari, anche se la scelta di Gisulfo potrebbe far pensare al contrario, sarà quindi sottolineare che egli viene scelto perché “marphais” dell’esercito e non perché nipote del Re.

La quantità di chiese e monasteri distrutti dai longobardi, unica traccia certa della loro fase di conquista, la dice lunga sulle modalità del loro ingresso in Italia. In sostanza i longobardi eliminano il ceto aristocratico pre-esistente, ed in tal senso va letta la distruzione dei centri vescovili, e lo sostituiscono con il proprio ceto militare, lasciando intatto l’ordine sociale. In particolare per il ceto produttivo urbano cambia poco: vengono inserito nella classe degli aldiones e in molti casi sono soggetti a legislazione romana, pagano più o meno gli stessi tributi che pagavano ai bizantini e gli si riconoscerà il diritto di abbandonare il proprio padrone se non ricevono un trattamento adeguato. Per i grandi proprietari terrieri, i quali vivevano ormai da tempo nelle fattorie fortificate, invece la condizione peggiora di molto e degradano anche loro nella classe degli aldi, quando riescono a risparmiare la vita (vedi Jarnut).

Nel loro procedere alla conquista, i longobardi si insediano nei diversi centri di quella vasta regione che diventerà appunto la Langobardia e quindi poco alla volta si sfoltisce l’orda di Alboino e quando questi si ferma a Pavia per farne la capitale del regno appena conquistato, evidentemente, le Fare che ancora non avevano conquistato qualche centro urbano o qualche altro avamposto dal quale sfruttare economicamente le terre circostanti, si lanceranno in altre campagne di conquista con o senza l’avallo del Re. In quest’ottica si spiegano i successivi scontri tra longobardi e franchi e la nascita dei ducati di Spoleto e Benevento. In particolare, come vedremo, la formazione del Ducato di Benevento appare completamente slegata dall’azione politica di Alboino, come se accadesse “a sua insaputa”.

Paolo Diacono racconta che subito dopo aver completato la sua impresa (nel 572, stesso anno della conquista di Pavia), Alboino muore avvelenato dalla moglie e “i duchi longobardi, radunati a Pavia, elessero Re all’unanimità il nobilissimo Clefi, che fece allontanare dall’Italia o uccidere molti dei più potenti romani. Ma dopo un anno e sei mesi fu sgozzato da uno schiavo. Dopo la sua morte i longobardi restarono dieci anni senza re. Ciascun duca governava la sua città: Zabano Ticino (Pavia), Wallari Bergamo, Alichi Brescia, Euino (Ewin) Trento, Gisulfo Forum Iulii (Cividale) più altri trenta duchi nelle rimanenti città. In questo periodo molti nobili Romani furono fatti uccidere per soddisfare l’avidità dei capi longobardi; gli altri Romani furono divisi tra i conquistatori e assoggettati al pagamento di un tributo, in ragione di un terzo delle loro rendite. Così nei sette anni dopo l’arrivo di Alboino questi duchi longobardi conquistarono e sottomisero buona parte dell’Italia oltre a quella che era già stata occupata da Alboino, saccheggiando le chiese, uccidendo i preti, distruggendo le città e stremando gli abitanti. Dopo essere stati dieci anni sotto il comando di vari duchi, finalmente i longobardi elessero re all’unanimità Autari, figlio di Clefi. Per dargli un titolo di distinzione lo chiamarono Flavio, titolo che fu poi felicemente portato da tutti i re longobardi. Sotto di lui, per restaurare il potere regio, i vari duchi cedettero la metà delle loro sostanze al costituendo patrimonio della corona in modo tale che ci fosse un fondo da cui il re, i suoi congiunti e i suoi collaboratori impegnati nelle varie cariche potessero attingere per mantenersi”.

I dieci anni di anarchia ducale coincidono con la fase più aggressiva della conquista. Senza nessuno che possa controllarli, i capi militari assetati di ricchezza assaltano qualsiasi centro si trovi in Italia, venendo anche sconfitti qualche rara forte. In questo contesto di conquista generalizzata assumono forma e consistenza politica anche i Ducati di Spoleto e di Benevento, come vedremo in seguito. La ricerca del bottino di guerra spingerà alcuni duchi a valicare le Alpi per intraprendere imprese di conquista e saccheggio. Inoltre l’elezione di Autari coincise con la perdita di metà dei propri possedimenti da parte di ogni singolo duca, per cui anche dopo la sua elezione, i duchi proveranno a conquistare ulteriori territori.

Per questo possiamo affermare che dal 568/569 per i successivi trent’anni, la permanenza dei longobardi in Italia fu caratterizzata da episodi violenti di conquista, devastazione e saccheggio. La sete di ricchezza che animava la classe aristocratica dei nobilissimi arimanni li spingeva ad assalire e cingere d’assedio non solo le già provate città italiane, devastate e decimate dalla lunga guerra greco-gotica e dalle recenti pestilenze, ma anche quelle d’oltralpe.

A tal proposito Jarnut afferma che i longobardi “a partire dal 569 quasi ogni anni si spinsero oltre le Alpi nell’aria meridionale del regno dei Franchi e saccheggiarono soprattutto la Provenza. Lì patirono nel 574-575 pesanti sconfitte”. Di fronte a questa situazione, il nuovo imperatore bizantino Tiberio decise di intervenire militarmente inviando nel 575 l’esarca Baduario con un grosso esercito a Ravenna ma venne sconfitto quasi subito in una battaglia in cui i longobardi trionfarono nettamente. A quel punto i bizantini, approfittando della mancanza di un Re (Clefi era morto nel 574), iniziano a tentare la corruzione dei singoli duchi, offrendogli oro in cambio del tradimento della propria “nazione longobarda”. Jarnut infatti sostiene che “numerosi duces, grazie a questo denaro, si lasciarono persuadere a farsi prendere con le loro truppe quali federati al servizio di Bisanzio (pag35)”. Del tradimento del Duca di Brescello, tale Droctulfo, parla lo stesso Paolo Diacono, affermando che “originario dei Suavi o Alamanni, era cresciuto tra i longobardi e, avendone le qualità, aveva ottenuto un ducato ma era passato dalla parte dell’imperatore”.

Il conflitto tra longobardi e franchi d’Austrasia proseguì per altri lunghi anni e ancora nel 581 o 583 il Duca di Trento Ewin doveva contrastare con successo un’invasione di franchi guidati da Cramnichi. La minaccia franca si fece ben più consistente nel 584, quando l’imperatore bizantino Maurizio strinse un accordo in chiave anti-longobarda con i franchi d’Austrasia, il cui re Childeberto invase l’Italia con 50.000 uomini. Fu proprio in quest’anno e molto probabilmente di fronte alla minaccia degli invasori, che i duchi longobardi decisero di dover eleggere di nuovo un re, un capo assoluto che potesse guidare la nazione longobarda.

I franchi occuparono i vasti territori dei duchi, ma questi si rinchiusero nei loro presidi fortificati e resistettero, e secondo Paolo Diacono “dopo un reciproco scambio di ambasciatori offrirono doni al re e ottennero la pace”. La missione di Childeberto viene realizzata secondo i cronisti medievali “su commissione” dell’imperatore bizantino, intenzionato ad eliminare i longobardi dal Nord Italia, per cui altre due volte il Re Childeberto proverà a portarla a compimento. Una seconda invasione, nel 585 fallisce per contrasti tra i capi militari o tra le truppe franche e quelle alemanne unitesi a loro (o perché sconfitte da Alboino come suggerisce Jarnut pag 37). Nei due anni successivi i longobardi cercano di avvicinarsi ai franchi d’Austrasia con la promessa di matrimonio tra Autari e la figlia di Childeberto, ma le nozze non si concludono e nel 588 riprende la guerra: la terza invasione franca si concluderà con una disfatta dell’esercito di Childeberto talmente grave che per Paolo Diacono “non se ne può citare una simile”.

Al fine di contrastare la minaccia dei franchi, i longobardi stringono alleanza con i Bavari, grazie al matrimonio tra il Duca di Trento Ewin con una figlia del duca dei bavari Garibaldo e soprattutto con le nozze del 589 tra il Re Autari e Teodolinda, altra figlia del duca. In tal modo Autari stringeva legami di parentela anche col potente Ewin, rafforzando la sua persona dal punto di vista politico.

Ma l’alleanza politica tra franchi e bizantini produceva un’ennesima invasione, databile al 590, stavolta con ingenti forze, tanto che lo stesso re dovette chiudersi a Pavia e resistere all’assedio. I franchi si diressero alla conquista di Milano, mentre i bizantini ravennati riconquistarono Mantova, Parma, Reggio, Piacenza, Modena ed altri centri importanti. Contemporaneamente, corrotti dall’oro, i duchi longobardi di Bergamo, Treviso e di altre città (tra cui appunto Reggio, Piacenza e Parma), si schierarono con i bizantini contro Autari. Non riuscendo però a prendere Pavia né a sconfiggere definitivamente l’esercito longobardo, dopo soli tre mesi di assedio, i franchi decisero di tornare a casa, forse a causa di un’estate particolarmente calda, visto che Paolo Diacono afferma che una terribile dissenteria uccise molti uomini. Così Autari salvò il proprio regno e si diede da fare per restaurare il proprio potere su tutta l’Italia, almeno a giudicare dalla notizia dell’impresa di Autari di cui ci informa Paolo Diacono, con la quale il re longobardo attraversò tutta la penisola e giunse fino all’estrema punta dell’attuale Calabria (Reggio) per stabilire “i confini dei longobardi”, notizia che non appare veritiera dato che lo stesso Autari morì subito dopo l’assedio franco, nel settembre 590, e non avrebbe avuto quindi il tempo per giungere fino a Reggio Calabria e tornare, ma che ci indica un tentativo politico del Re di assicurarsi di nuovo la fedeltà di tutti i duchi longobardi dopo l’invasione franca. Molto più plausibile è la notizia del suo tentativo di instaurare una pace duratura coi franchi d’Austrasia, grazie alla mediazione di Guntram, zio di Childeperto, a cui inviò degli ambasciatori. Proprio durante la missione degli ambasciatori, Autari morì avvelenato a Pavia.

Qualche mese dopo, nel maggio 591, l’assemblea delle lance elesse come re Agilulfo, a quanto sembra sotto suggerimento della regina Teodolinda, a cui i longobardi, secondo Paolo Diacono, “si erano affezionati”. Teodolinda del resto appare da subito come una personalità politica di rilievo, per cui mantiene la corona e sposa Agilulfo già due mesi dopo la morte di Autari facendolo così diventare re. La sua posteriore elezione sarebbe stata quindi solo una conferma.

 

La svolta si avrà nel 636 quando diventa Re dei longobardi Rotari (636 – 652), duca di Brescia, il quale, durante il suo regno, conquisterà la Liguria (641) ed emanerà il famoso editto che porta il suo nome (Editto di Rotari, 643) e che costituisce il primo corpus di leggi della società longobarda. Nello stesso periodo il ducato di Benevento è invaso dagli Slavi e i longobardi del Friuli accorrono in soccorso, riuscendo a ricacciare gli Slavi nell’Adriatico. Nel 647 il nuovo duca di Benevento, Grimoaldo caccia i bizantini dal Gargano e pacifica di nuovo il Ducato. Lo stesso duca, nel 662, approfittando di una disputa tra i principi, abbandona Benevento, lasciando suo figlio Romualdo a capo del ducato, e si reca armato a Pavia, uccide uno dei pretendenti al trono e si fa eleggere Re dei Longobardi, con il consenso di molti altri duchi. Approfittando della lontananza di Grimoaldo, l’imperatore bizantino invade l’Italia e si lancia alla conquista di Benevento, che cinge d’assedio nel 663. Grimoaldo lascia Pavia e scende a Benevento per prestare soccorso, inducendo l’imperatore alla fuga. Il fatto che i bizantini non abbiano voluto rischiare di affrontare Grimoaldo la dice lunga sulle sue doti militari. Il duca, infatti, non ha perso mai una battaglia, riuscendo a sbaragliare anche i Franchi nei pressi di Asti e a soffocare la ribellione del duca di Cividale. Ironia della sorte, Grimolado morirà per una ferita di caccia.

L’assedio che subisce Benevento nel 663 da origine alla leggenda delle streghe: durante l’assedio il Vescovo cristiano San Barbato promette a Romualdo di intercedere presso Dio per salvare la città a patto che egli si impegni a tagliare il noce attorno al quale i longobardi praticavano riti pagani. L’albero venne definitivamente tagliato nel 667 e da quel momento Benevento divenne nell’immaginario collettivo europeo la città delle streghe, le quali, secondo la leggenda, continuarono ad incontrarsi nel luogo in cui sorgeva il noce magico provenendo da ogni parte d’Europa per apprendere o perfezionare l’arte della stregoneria.

Dopo un lungo periodo di instabilità politica, nel 701 diventa re Liutprando, il quale nel 728 passerà alla storia per la donazione di Sutri, una città data in omaggio al santo padre per certificare l’avvenuta conversione dei longobardi al cattolicesimo e che costituisce l’atto di fondazione dello Stato della Chiesa. Lo stesso Liutprando si lancerà in una campagna militare meridionale, per sottomettere i duchi di Spoleto e Benevento, troppo autonomi rispetto all’autorità di Pavia. Liutprando riuscirà a conquistare entrambe le città e nominerà Agiprando duca di Spoleto e Gisulfo duca di Benevento. Forte delle sue vittorie, Liutprando invaderà l’Esarcato e cingerà d’assedio Ravenna. Ancora una volta il Papa lo convincerà a risparmiare la città e a restituire le terre. Alla morte di Liutprando i duchi eleggono come nuovo re Rachis, il quale, dopo aver provato a conquistare Perugia, si converte alla vita monastica, abdica in favore del fratello Astolfo e si ritira a vita nel monastero di Montecassino, che intanto i diversi duchi longobardi di Benevento ristrutturano per testimoniare la loro crescente fede. Il nuovo re Astolfo si dimostra meno pacifico e subito conquista Ravenna (751), rifiutando ogni proposta di pace da parte del nuovo Papa e arrivando ad annettere al suo regno anche il Ducato di Spoleto non appena il suo duca muore. Nel 753 Astolfo cinge d’assedio Roma, pretendendo un tributo dal Papa a titolo di “protettorato”, che nel linguaggio longobardo significava “sottomissione”. Il papa lascia Roma e si rifugia dal re dei Franchi Pipino, convincendolo a scendere in guerra. Con un potente esercito, Pipino invade la Longobardia ed assedia Pavia. Astolfo si arrende  e cede al Papa tutti i territori precedentemente conquistati. Nei due anni successivi, però, Astolfo riprende la guerra e cinge di nuovo d’assedio Roma, inducendo il Papa Stefano II a chiedere di nuovo l’intervento di Pipino il quale scende in Italia, assedia Pavia e costringe di nuovo il re longobardo alla resa, pretendendo il rispetto dei patti di due anni prima. Tutte le terre vengono riconsegnate al Papa e si forma così il Patrimonio di San Pietro.

Nel 757 Desiderio diventa il nuovo Re dei Longobardi e subito si lancia in una campagna di rafforzamento del regno, invadendo l’Esarcato e sottomettendo di nuovo i ducati di Spoleto e Benevento, che in precedenza si erano “sottomessi” all’autorità del Papa. Inducendo i duchi alla fuga, Desiderio nomina Arechi II duca di Benevento, al quale dona in moglie sua figlia Adelperga ed accorpa Spoleto al suo regno, per poi nominare il suo fido Gisulfo. Di fronte ad una possibile minaccia bizantina, il re longobardo decide infine di cessare le ostilità con il Papato e nel 766 si accorda per una definizione dei confini dello stato della chiesa e del ducato beneventano, anche se Arechi II non cederà mai le terre promesse dal Re. Sia Desiderio che Arechi II portano avanti una politica incentrata sulla diplomazia e la distensione. Arechi II organizza la traslazione delle reliquie di Sant’Eliano con lo scopo di istituire rapporti di amicizia con Bisanzio, mentre Desiderio dona un’altra sua figlia, Desiderata (chiamata Ermengarda da Manzoni), in sposa a Carlo, allora solo principe dei Franchi, proprio per dare vita ad un periodo di pace, aspettativa che verrà comunque disattesa.

Desiderio riprende le ostilità coi franchi e col Papato quando Carlo Magno, dopo aver ripudiato la moglie “Ermengarda”, in seguito alla morte del fratello Carlomanno, si proclama Re, nel 771. Lo stesso anno Desiderio riprende gli attacchi contro i territori della Chiesa, marciando contro la stessa Roma e inducendo il nuovo Papa Adriano I a chiedere l’intervento militare di Carlo, il quale nel 773 scende in Italia e sbaraglia facilmente l’esercito longobardo, che oppone resistenza con Adelchi, figlio di Desiderio, reso celebre dalla tragedia di Manzoni. Dopo un anno di assedio, Pavia cade e Desiderio si arrende. Carlo Magno non lo uccide, ma lo fa rinchiudere in un monastero e si nomina Re dei Franchi e dei Longobardi. L’anno successivo, nel 775, Adelchi convince il duca di Benevento Arechi II e quello di Spoleto Ildebrando a ribellarsi contro il dominio dei Franchi ed esorta alla ribellione altri duchi del Nord. Carlo Magno ritorna in Italia e sottomette i duchi del Nord, riducendo il Friuli a Marca e ottenendo la fedeltà di Arechi II, il quale, però si nomina Principe dei longobardi e continua a godere di una relativa autonomia nei confronti del Re franco. Nel 787 alla morte di Arechi, i beneventani pretendono che diventi loro duca (e quindi principe dei longobardi) suo figlio Grimoaldo, che Carlo Magno tiene come ostaggio, ma il re Franco sembra invece intenzionato ad assimilare il ducato al suo regno e ridurlo a “marca”. Grazie all’abilità diplomatica di Adelperga, alla fine Carlo Magno decide di liberare Grimoaldo, il quale diventa duca di Benevento, ma solo dopo aver garantito a Carlo Magno la sua fedeltà. Nel 788 Adelchi, fratello di Adelperga e figlio di Desiderio, tenta un ultimo assalto al ducato di Benevento per conquistarlo, ma Grimoaldo, rimasto fedele a Carlo Magno, lo sconfigge. Proprio per questo, ai longobardi di Benevento viene lasciato il privilegio di nominare il proprio duca all’interno della popolazione longobarda, per Spoleto, invece, i duchi franchi subentrano ai longobardi.

Grimoaldo IV, nell’811, stipula un trattato di pace con Carlo Magno, col quale si impegna a pagargli un tributo, riconoscendone la supremazia. E’ l’atto che sancisce la fine dell’autonomia longobarda, anche se, nei secoli a venire, il ducato di Benevento per più volte agirà come entità politica autonoma, soprattutto quando il potere dei franchi si allenterà. Solo l’arrivo dei normanni porrà fine al ducato di Benevento, il quale, alla morte dell’ultimo duca longobardo (1077)  verrà ceduta al Papa e diventerà territorio della Chiesa.

 

LA FORMAZIONE DEL DUCATO DI BENEVENTO

La formazione del Ducato longobardo di Benevento è da sempre una questione considerata estremamente interessante e al tempo stesso nebulosa per via della mancanza di prove certe. Nato in quella lunga fase di instabilità politica iniziata con la guerra greco-gotica, il Ducato di Benevento è stato indagato fin dal 1871 da Hirsch nella sua opera intitolata appunto “Il Ducato di Benevento sino alla caduta del regno longobardo”, tradotta in italiano da Schipa già nel 1890, che ha costituito il punto di partenza per le indagini e gli studi successivi1. Nella sua analisi2 Hirsch dava per scontato che Zottone, il primo duca longobardo di Benevento, facesse parte delle orde guidate da Alboino che penetrarono in Italia dall’attuale Friuli nel 568 e che se ne fosse staccato intorno al 570 in seguito alla discesa verso la Tuscia, raccontata anche da Paolo Diacono nella Historia Langorbardorum3, fonte che si limita a certificare soltanto che il primo duca di Benevento fu appunto Zottone ma che tace sulla natura della sua fondazione. Mentre infatti la fondazione del ducato di Cividale viene raccontata da Paolo Diacono mettendo in risalto che Gisulfo4 sceglie le Fare che si andranno ad insediare nella parte fortificata del borgo, nulla viene detto sulle modalità di insediamento dei longobardi in quella che gli storici coevi definiscono la città fortezza di Benevento5. In particolare, collocando la nascita del Ducato tra il 570 e il 571, la conquista della città deve essere avvenuta due anni prima della caduta di Pavia per cui ne consegue che in ogni caso i longobardi guidati da Zottone che fondarono il Ducato a Benevento costituivano un gruppo di armati diverso e separato dall’esercito di Alboino che invece negli stessi anni era impegnato a realizzare il lungo assedio di Ticinum. Appariva chiaro anche allo stesso Hirsch che Alboino non avesse avuto parte in nessun modo alla fondazione del Ducato beneventano6, per cui negli anni si è cercato di indagare, pur nella scarsezza di fonti, la reale composizione del gruppo di armati autori della nascita del Ducato meridionale. I longobardi che si insediano a Benevento, infatti, non sembrano essere un gruppo sociale complesso come nel caso di Cividale e dei ducati settentrionali, ma assomigliano più ad una sorta di gruppo prettamente militare che si dedica più al saccheggio dei territori che all’insediamento permanente in essi. Le notizie delle notevoli devastazioni e del conseguente abbandono delle sedi vescovili che ci giungono mediante i resoconti dei Papi del periodo ci disegnano orde di guerrieri alla ricerca di ricchezze facilmente trasportabili che non somigliano per nulla alle organizzatissime Fare che costituivano l’essenza della nazione longobarda7. Per questo motivo recentemente l’ipotesi che Zottone facesse parte originariamente dell’esercito di Alboino disceso in Italia nel 568 e che se ne fosse distaccato durante la discesa verso la Tuscia viene sostanzialmente respinta dagli storici a vantaggio di un’ipotesi che definisce il gruppo armato guidato da Zottone come una parte residuale di contingenti di cultura germanica coinvolti nelle vicende finali della guerra greco-gotica e stanziati nel sud Italia ed in particolare in Campania con scopi di controllo del territorio con il consenso se non addirittura sotto il controllo dell’imperatore di Bisanzio8. In particolare Rotili sostiene che “la formazione del Ducato di Benevento ad opera di Zottone potrebbe essere ricondotta alle medesime circostanze politiche da cui trasse origine il Ducato di Spoleto9”, ovvero alle esigenze da parte di Bisanzio di servirsi di contingenti di gruppi armati di cultura germanica per riorganizzare strutture politico-militari che potessero limitare la conquista longobarda dell’Italia e salvaguardare le riconquiste bizantine realizzate con la guerra greco-gotica. In particolare la fondazione del Ducato da parte di Zottone, secondo Rotili, andrebbe connessa agli episodi del 576, quando si registra la sconfitta militare di Baduario, il curopalate a cui era stato affidato il tentativo di riconquista bizantina dell’Italia all’indomani dell’assassinio di Clefi, il successore di Alboino, nel 574, a cui seguono dieci anni di anarchia ducale. La sconfitta di Baduario, secondo Rotili, avrebbe potuto determinare “l’origine del Ducato meridionale inducendo a schierarsi contro l’Impero i più antichi nuclei di longobardi stanziati nel beneventano circa venti anni prima10”. In quest’ottica, secondo Rotili, la data del 570 sarebbe frutto di un aggiustamento cronologico e invece la data di effettiva “operatività” del Ducato andrebbe posticipata al 576, data che costituisce una sorta di spartiacque, visto che proprio a partire da quest’anno le cronache iniziano a registrare la minacciosa presenza di eserciti dalle lunghe barbe nel meridione d’Italia11. Il biografo di Papa Benedetto, infatti, a partire dal 576, inizia a rilevare che la presenza longobarda nel Centro-sud era venuta a costituire un aspetto preoccupante della situazione politico-militare; la pressione esercitata su Roma dagli invasori germanici avrebbe del resto impedito che nel 579 pervenisse la rituale conferma imperiale per l’incoronazione di Papa Pelagio, successore di Benedetto. Sempre secondo Rotili “nel ducato di Benevento, più che Fare agiscono contingenti limitati e specialistici cioè nuclei di militari privi del supporto della gens e pronti all’integrazione con l’elemento indigeno, cioè strutture aggregative del tipo del comitatus, un contingente di guerrieri caratterizzato da un profondo senso comunitario che segue temporaneamente un capo ma può divenire una struttura stabile: tali (…) nuclei di longobardi (…) essendo privi del supporto della gens non ebbero la consistenza numerica e politica per attuare almeno nell’immediato un disegno organico di occupazione e insediamento né furono in grado di sottrarsi ai condizionamenti dell’ambiente di cultura tardoantica-mediterranea e alla continua trattativa coi bizantini dai quali spesso cercarono di strappare accordi vantaggiosi12. Zottone potrebbe essere stato insignito del titolo di dux proprio dalla gerarchia militare tardo-romana per le specifiche funzioni di capo dei federati di Bisanzio, egli non fu un duca in senso territoriale e probabilmente non ebbe il pieno controllo delle bande che dopo il 576 e ancor più dopo il 590, allorché si concluse senza esito il secondo tentativo di conquista bizantino, si impadronirono, ormai sotto la guida di Arechi I, di buona parte del mezzogiorno continentale13”.

Al fine di far chiarezza sull’argomento, occorre definire il contesto entro il quale nasce il Ducato longobardo di Benevento e quali sono i soggetti coinvolti nella questione. Innanzitutto dobbiamo sottolineare lo stato di crisi generale che attanagliava il Sud Italia: il perdurare della guerra greco-gotica e la conseguente presenza duratura di gruppi armati aveva determinato una profonda instabilità politica ed una decrescita demografica certificate dalla scomparsa o dall’abbandono parziale di moltissimi agglomerati urbani, con la fortificazione dei centri strategici, come nel caso appunto di Benevento, considerata come detto città fortezza e contesa dai due eserciti in campo (per cui Totila ne avrebbe fatto abbattere le mura).

Come sappiamo da Costantino Porfirogenito un contingente di longobardi aveva combattuto al fianco dei bizantini sia a Tangina (nel 552), sia sul Vesuvio (nel 553) durante le fasi conclusive della guerra contro i Goti, risultando determinanti. Si tratta probabilmente dello stesso gruppo di guerrieri longobardi che Procopio di Cesarea definisce indisciplinati, violenti e dai costumi indegni, e che Narsete avrebbe poi espulso dall’esercito bizantino, ma che fino a quel momento potrebbero essere stati alloggiati nel centro fortificato di Compsa, altro punto strategico insieme a Benevento14.

Anche dopo la fine della guerra greco-gotica, la situazione del meridione d’Italia appare tutt’altro che pacificata, come testimoniato dagli episodi relativi alla presenza di gruppi armati di cultura germanica guidati da Bucellino e Leutari, di cui facevano parte anche contingenti di longobardi. Tali gruppi vennero poi sconfitti a Capua dai bizantini nel 554, sconfitta in seguito alla quale i longobardi sarebbero passati dalla parte dei bizantini e sarebbero stati trattenuti in Campania per esigenze di presidio militare del territorio15.

Ma i longobardi non dovevano essere gli unici armati di cultura germanica presenti nel meridione in quel periodo: innanzitutto dobbiamo registrare la permanenza dei Goti arresisi a Bisanzio, ma oltre a loro dovevano essere insediati altri elementi germanici coinvolti nel lungo conflitto e poi usati dai bizantini per pacificare e controllare le recenti conquiste. Non mancavano nemmeno gruppi armati di cultura tardo-antica, composti da classi subalterne che si dedicavano al banditismo, come i briganti che nel 527 ostacolavano lo svolgimento della fiera di Marcellianum nel Vallo di Diano e che costituivano un elemento di instabilità per il governo goto costringendo Atalarico ad un intervento repressivo del fenomeno16.

Il quadro generale dell’Italia meridionale nel 570 appare quindi catastrofico, a partire dalla totale mancanza di una qualsivoglia forma di organizzazione politico-amministrativa e di un tentativo di governo organico dei territori, a cui si accompagna un drastico crollo demografico e la scomparsa o la riduzione dei nuclei urbani, con l’eccezione di pochi centri che si erano fortemente militarizzati, un quadro reso instabile dalla presenza di insediamenti temporanei o duraturi di gruppi armati di cultura germanica che si disseminavano nel meridione e che costituivano gli ultimi elementi residuali delle truppe coinvolte nelle guerre greco-gotiche.

In questo contesto l’invasione dei longobardi guidati da Alboino, a cui si sono aggiunti come sappiamo Sassoni, Gepidi, Bulgari, Sarmati, Pannòni, Slavi, Norici e altri popoli germanici17, e tra i quali dovevano esservi non pochi rampolli dell’aristocrazia militare longobarda che si era formata in seguito alle vittorie realizzate prima dell’invasione dell’Italia, determina un acuirsi dell’instabilità politica e potrebbe aver spinto i gruppi armati insediati nel meridione, a cui non è da escludersi che si siano aggiunti elementi separatisi dall’esercito di Alboino dopo l’invasione della Tuscia, a diventare soggetti attivi della ricomposizione politica del territorio, o per propria iniziativa o per iniziativa di Bisanzio.

La scelta di insediarsi a Benevento da parte di questi elementi armati guidati da Zottone non deve sembrare casuale: sappiamo da Procopio che era una città fortezza di importanza strategica, tanto da ospitare un presidio bizantino di fondamentale importanza, e, come suggerisce Rotili, “il suo territorio era attraversato da strade rimaste in funzione per gran parte dell’alto medioevo e in età imperiale la città era inoltre sede di un emporium in cui veniva stivata l’annona delle truppe18”, inoltre, situata nell’entroterra, si trovava molto lontano dalle coste e quindi dai possedimenti e dalle minacce bizantine, in una zona dalla quale ripiegare facilmente verso Nord lungo la dorsale appenninica.

Alla luce degli eventi successivi, però, almeno nei primi anni del Ducato, la città di Benevento sembra essere più il quartier generale da cui partono gruppi armati per compiere scorrerie e saccheggi nei territori circostanti che la sede di un governo che ha intenzione di amministrare una vasta regione piegata da decenni di guerre. A partire dal 576, infatti, in un contesto reso ancora più instabile a causa della cosiddetta anarchia ducale, si registrano notizie di assalti e distruzioni dei centri di Aquino, Castel Volturno, più tardi Montecassino, mentre è del 581 la notizia di un lungo assedio longobardo alla ricca città di Napoli19. Per quanto il numero di armati coinvolti in queste operazioni possa essere stato esiguo, occorre sempre ricordare che essi agivano in un contesto di scarsa presenza demografica e di totale assenza di eserciti nemici. Una delle caratteristiche del Ducato beneventano, infatti, è quella di essere il risultato dell’azione di gruppi armati sprovvisti di seguito sociale che agendo in contesti critici e instabili assumono facilmente il controllo prettamente militare di una regione considerata strategica (che coincideva grosso modo con il Sannio Storico) e amministrano i territori servendosi della popolazione autoctona della quale assorbono la religione e la cultura. I longobardi resteranno sempre una parte minoritaria della pur esigua popolazione dell’entroterra meridionale ed anche la componente militare rimarrà a costituire un elemento predominante della società e fungerà da catalizzatore per la rinascita e la ricomposizione interna degli insediamenti urbani.

Possiamo quindi ritenere la nascita del Ducato di Benevento come un episodio connesso ma non collegato direttamente all’invasione di Alboino e soprattutto possiamo affermare che il governo del ducato fu da subito del tutto autonomo rispetto alla capitale Pavia anche alla luce della decennale anarchia ducale che segue alla morte di Clefi, che favorisce appunto l’autonomia se non addirittura la nascita del Ducato longobardo di Benevento. Il periodo più oscuro, infatti, rimane quello tra il 570 e il 576, quando le cronache papali tacciono e nessuna notizia si ha sulla situazione politica del meridione, ufficialmente governato ancora dai bizantini, per cui non è da escludersi che Zottone nel 570 sia stato nominato appunto Duca, titolo che nell’esercito bizantino era inteso come comandante supremo delle truppe stanziate in territori di frontiera20, ma che solo dopo il 576, in seguito al fallimento del progetto di riconquista bizantina portato avanti da Baduario, abbia deciso di non servire più la causa imperiale per unirsi alla gens langobardorum, a cui non è necessario che ne appartenesse etnicamente. Di certo l’anarchia ducale costituisce un elemento di accelerazione nella formazione del Ducato longobardo, per cui da questo momento Benevento diventa appunto un centro attivo della ricomposizione politica del Sud Italia smettendo di essere soltanto un avamposto militare dei possedimenti di frontiera dell’impero bizantino.

L’anarchia ducale termina nel 584 con l’elezione di Autari, il quale si diede da fare per restaurare il proprio potere su tutta l’Italia, almeno a giudicare dalla notizia dell’impresa di cui ci informa Paolo Diacono, con la quale il re longobardo attraversò tutta la penisola e giunse fino all’estrema punta dell’attuale Calabria (Reggio) per stabilire “i confini dei longobardi”, notizia che, al di là della veridicità storica, ci indica un tentativo politico del Re di assicurarsi di nuovo la fedeltà di tutti i duchi longobardi dopo l’invasione franca, compreso il Duca di Benevento21. Lo stesso fatto che come successore di Zottone nel 591 il nuovo Re Agilulfo nominerà Arechi I22, un arimanno proveniente dal Friuli e legato al governo centrale, invece di uno dei componenti il Comitatus militare di Zottone, sembra un tentativo di ripristinare il controllo regio sul Ducato meridionale, controllo che quindi doveva necessariamente mancare prima, anche perchè a quanto pare il Duca di Benevento non era tenuto a versare la metà del proprio patrimonio alla cassa reale come invece gli altri Duchi che avevano eletto Autari e Agilulfo, elezioni a cui il Duca di Benevento non aveva nemmeno preso parte23.

Sebbene fosse espressione dell’autorità regia appena restaurata, Arechi I si mostra subito autonomo, dato che nei primi anni del suo ducato si susseguono le notizie di assalti e distruzioni di centri abitati, con relativa soppressione della sede vescovile: Canosa cade nel 591, Cuma nel 592, l’antica Capua tra 593 e 594, Venafro non più tardi del 595, Crotone nel 596. Arechi I non è nemmeno coinvolto negli accordi di pace tra longobardi e bizantini firmati nel 599 e durati fino al 60124, anno in cui abbiamo notizie di una lettera che Papa Gregorio scrive ad Arechi I, con la quale il pontefice gli chiede legno per costruire la Chiesa di San Pietro e Paolo a Roma25, ma che può essere letta come un tentativo di intavolare rapporti più distesi ed avviare una pacificazione. Ad ogni modo tale lettera certifica il controllo di ampie zone del Sud Italia da parte del Duca di Benevento, a cui il Papa si rapporta come un vero e proprio capo di Stato. Per questo possiamo considerare questa missiva come la prova certa che il Ducato di Benevento fosse diventato già con Arechi I un’entità politica protesa non più solo alla conquista ma anche all’amministrazione dei territori e che fosse un elemento separato dal Regno di Pavia, in possesso di un’autonomia di governo che viene appunto riconosciuta dal Papa. Anche la presa di Salerno, dopo il 625, che non comporta distruzioni alla città, appare come il frutto di una iniziativa diplomatica26, con ovvie implicazioni commerciali, che solo un’amministrazione strutturata può portare avanti.

Arechi I governerà 50 anni si adopererà per dotare il Ducato di un’amministrazione ben organizzata, mediante la figura dei Gastaldi, e di confini sicuri, mediante la fortificazione di siti strategici che servivano da avamposti anti-bizantini, contribuendo fortemente al consolidamento del Ducato beneventano come entità politica autonoma e indipendente dal Regno di Pavia anche se ad esso legato da comunanza ideologica, dato che i longobardi beneventani si sentiranno sempre parte delle Gentis Langordarorum, anche e soprattutto dopo la fine del regno nel 774, quando il Duca Arechi II di fronte alla proclamazione di Carlo Magno come Re dei Longobardi, si definisce Principe dei Longobardi, promulga Leggi e conia moneta, riuscendo a salvare la gens langobardorum dalla scomparsa e preservandola per altri tre secoli.

La figura del Gastaldo compare anche nella Langobardia Maior, per cui non è certo un’invenzione beneventana, ma qui i gastaldi sono nominati dal Duca stesso e non dal Re, come invece nel settentrione longobardo, dove la nomina dei gastaldi, che come sappiamo avevano funzioni principalmente amministrative e finanziarie, serviva alla Corona anche per controbilanciare il potere e l’autonomia dei duchi e rafforzare il potere centrale. Dal punto di vista amministrativo il Ducato di Benevento è diviso in judicariae, ovvero distretti territoriali che più tardi verranno chiamati appunto “gastaldati”, indicando l’importanza e la diffusione di tale figura nell’organizzazione ducale beneventana27. Abbiamo infatti anche notizie di gastaldi nominati come ufficiali della Corte e di gastaldi impegnati in azioni diplomatiche oltre confine, come nel caso di Gualtari sotto Arechi II, a cui si deve la traslazione delle reliquie di Sant’Eliano28 (evento a cui è dedicata l’annuale rievocazione storica cittadina organizzata dall’associazione culturale Benevento Longobarda). I Gastaldi amministravano i territori servendosi di loro sottoposti che vengono definiti sculdasci e actionarii, sempre di nomina ducale29. I primi sono capi locali, una sorta di evoluzione statica del capo-Fara nel periodo delle migrazioni, mentre i secondi sembrano essere gli amministratori delle singole unità produttive disseminate nei contadi meridionali. Accanto ai gastaldi, il Duca nomina i conti, che hanno una sorta di componente militare in più che lo differenziano dal gastaldo, comparendo più spesso all’interno della Corte beneventana e facenti parte, evidentemente, del Comitatus militare, o della sua evoluzione, che fin dalla fondazione del Ducato si presenta come una sorta di esecutivo di governo con a capo indiscusso il Duca30.

Con il passar del tempo, soprattutto dopo la caduta del Regno di Pavia, la figura del Gastaldo divenne sempre più potente, per cui ben presto i Gastaldi iniziarono a reclamare l’ereditarietà della carica e ad aumentare sempre di più la propria autonomia, fino a dare origine ad una vera e propria sedizione, con la congiura orchestrata dal Gastaldo di Acerenza, il friulano Sicone, esule dalla langobardia maior dopo la conquista franca, che, in accordo con il Gastaldo di Avellino Rotfrid e con il Conte di Conza Radelchi, riuscirà ad assassinare Grimoaldo IV, il quale lo aveva convinto a trattenersi nel beneventano invece di riparare a Bisanzio e lo aveva appunto nominato gastaldo di uno dei centri più importanti dell’ormai Principato longobardo di Benevento. Con questo omicidio il Gastaldo Sicone diventerà Principe, e il susseguirsi degli eventi sfocerà in una vera guerra civile che porterà al progressivo frazionamento politico del Ducato31.

L’autonomia politica di Benevento rispetto alla Reggia di Pavia, dovuta certamente anche alla lontananza geografica e alla presenza dei territori bizantini che impedivano una continuità territoriale al governo regio, è un dato che dura per tutta l’esistenza della Langobardia Maior, come testimoniato dal gran numero di Duchi eletti dagli stessi arimanni beneventani e dai tentativi dei Re di Pavia di controllare il ducato meridionale attraverso l’elezione di Duchi strettamente legati alle aristocrazie regnanti nella capitale.

Come sappiamo, alla morte di Arechi I i beneventani elessero suo figlio Aione, e alla subitanea morte di costui per mano di un gruppo di Slavi presso Siponto, elessero suo fratello adottivo Radoaldo, sotto il cui ducato venne emanato l’Editto di Rotari ma il Re non specifica se esso sia esteso anche ai longobardi beneventani. Dopo Radoaldo divenne Duca suo fratello Grimoaldo, poi destinato a diventare Re di Pavia con quello che si potrebbe definire un colpo di stato. Divenendo Re, Grimoaldo nominò Duca suo figlio Romualdo, sotto il cui ducato è attestata la conversione dei beneventani per opera di San Barbato a cui è legata la vicenda del taglio della sacra arbor, probabilmente un noce, che poi nei secoli successivi venne associata alla leggenda delle streghe. Quando il Re Grimoaldo muore, ritorna sul trono Pertarito, ripristinando la dinastia bavarese, e la storia dei longobardi beneventani ritorna ad essere separata da quella di Pavia. Da questo momento in poi, però, i Re utilizzeranno spesso la pratica del matrimonio politico per assicurarsi la fedeltà del Duca di Benevento: così faranno lo stesso Pertarito e soprattutto sia Liutprando che Desiderio, nei loro tentativi di unificazione territoriale dei possedimenti longobardi in Italia. Liutprando addirittura minaccerà con le armi Spoleto e Benevento nel 729 e interverrà nel ducato meridionale di persona nominando Duca prima suo nipote Gregorio e poi alla morte di questi nel 739 il beneventano Gisulfo, che egli aveva allevato a Pavia, spodestando Godescalco che invece era stato eletto dai beneventani32.

E’ da sottolineare come nei documenti di questi anni, il Ducato di Benevento sia considerato dai longobardi di Pavia come un paese straniero, alla stessa stregua del regno dei Franchi33. I continui tentativi di Liutprando di assicurarsi la fedeltà del Duca di Benevento, indispensabile per la realizzazione del suo progetto politico di unificazione territoriale, mostrano chiaramente quanto fosse oramai radicata e spiccata l’autonomia dei beneventani rispetto alla capitale del Regno longobardo. Anche l’ultimo Re di Pavia, Desiderio, al fine di garantirsi la fedeltà di Benevento, nominò come Duca il fido Arechi II, a cui poi concesse in moglie la propria figlia Adelperga. Come è noto Desiderio usò la pratica del matrimonio a scopi politici anche con il futuro Carlo Magno, sempre nell’ottica generale di una unificazione territoriale dei possedimenti longobardi, ma il suo progetto politico non si concretizzò e alla fine il Re franco riuscì ad annettersi sia l’intero Regno longobardo che il Ducato di Spoleto.

Il perchè Carlo Magno abbia risparmiato il Ducato di Benevento e non lo abbia annesso al Regno nemmeno di fronte alla minaccia di Adelchi, e nonostante le continue insistenze del Papa, è un’altra questione spesso dibattuta. Come molti sanno Arechi e Adelperga cedettero il figlio Grimoaldo III come ostaggio a Carlo Magno e alla morte di Arechi questi fu proclamato principe e per i primi anni coniò moneta con le insegne di Carlo, ma poi, dopo la prova di fedeltà data proprio in occasione dell’episodio di Adelchi, il controllo politico franco, sebbene rivendicato sulla carta dagli imperatori successivi, si allentò fino a scomparire e Benevento riacquistò la propria indipendenza politica, stavolta totale, dato che il Regno di Pavia, da cui sarebbe dovuto dipendere almeno formalmente, non esisteva più34.

Per spiegare il passo indietro di Carlo Magno di fronte alla possibilità di annettere Benevento, non dobbiamo escludere il fondo di verità che soggiace nel racconto dell’anonimo salernitano secondo cui il futuro imperatore rimase ammaliato dal racconto di un messo che aveva visitato la corte di Arechi II e ne aveva evidenziato il notevole spessore culturale, assicurato dalla presenza di Paolo Diacono, una missione che Carlo avrebbe ordinato durante l’occupazione di Capua nel 786, quando andarono a vuoto i deboli tentativi di conquista franca, contro i quali il sistema difensivo del Ducato, fatto di presidi militari difficili da conquistare, aveva resistito benissimo35. Del resto la presenza dell’ormai consolidatosi Stato della Chiesa, che impediva la continuità geografica del nuovo regno franco così come aveva impedito l’unificazione territoriale longobarda, costituiva da sola un valido freno alla possibilità di annessione del Ducato di Benevento al futuro Sacro Romano Impero.

Se quindi la Langobardia Maior si caratterizza per la molteplicità di insediamenti di Fare longobarde, che col tempo svaniscono a vantaggio di una fusione con i residui della società urbana tardo-antica, il Ducato di Benevento si caratterizza come un’entità politica con una forte componente militare etnicamente non omogenea che però è minoritaria rispetto alla pur esigua popolazione autoctona, con la quale i longobardi devono fare i conti, finendo per accettarne la religione e moltissimi elementi culturali.

Se infatti andiamo ad analizzare i ritrovamenti archeologici del meridione, notiamo subito che l’elemento militare sembra essere soltanto accostato ma non profondamente legato all’elemento sociale ed in particolare femminile, ma soprattutto notiamo una graduale assimilazione di usi funerari cristiani e un corrispondente abbandono delle usanze tipiche longobarde. Innanzitutto in tutto il meridione, i ritrovamenti di inumazioni ascrivibili al periodo longobardo in cui registriamo la deposizione di armi sono soltanto quattro e in due di essi si tratta di casi isolati, ovvero Telese e Sant’Anastasia di Ponte, il cui corredo è comunque esiguo36.

Il ritrovamento più importante, quello dei cimiteri di Vicenne e Morrione, nei pressi di Bojano, è del resto una necropoli di Bulgari, quasi certamente il gruppo militare guidato da Alzeco, di cui parla anche Paolo Diacono, che si sarebbe insediato nel Ducato di Benevento in seguito alle vicende del 663, data dell’invasione di Costante II, con chiari compiti di presidio e controllo del territorio, certificato dal fatto che le due necropoli si trovano proprio a ridosso del tratturo Pescasseroli-Candela che doveva costituire una fondamentale via di transito37. La particolarità di tali necropoli, come si sa, è la sepoltura contestuale di cavalieri con i propri cavalli bardati, esemplari anziani che testimoniano la proprietà e l’uso del cavallo da parte dell’inumato, insieme ad un grande numero di armi, presenti anche in alcune tombe senza cavallo. In particolare, la pratica dell’inumazione contestuale di cavallo e cavaliere, sembra essere il tentativo da parte di questa comunità di conservare un legame con le proprie origini e tradizioni etniche, dato che il resto dei corredi testimonia una accentuata mescolanza di elementi longobardi, bizantini e tardo-romani. Alla luce dei numerosi traumi da violenza interpersonale evidenziati sugli inumati di cui parla Ceglia, la curatrice degli scavi, e dall’abbondanza di armi di cui abbiamo accennato, in particolare arco e frecce con faretra, come da tradizione delle popolazioni caucasiche, possiamo dedurre che si trattava appunto di un gruppo a fortissima connotazione militare, inserito nel sistema di presidio e controllo del territorio del Ducato per via della scarsa consistenza numerica dei governanti longobardi rispetto alla vasta estensione dei loro possedimenti meridionali38. Di particolare interesse sono due tombe, una a Vicenne e l’altra a Morrione, che presentano un individuo adulto sprovvisto della cintura, la cui spoliazione in vita era sinonimo di umiliazione sociale e/o perdita di potere politico ma che qui, invece, era stata probabilmente concessa in dono ad un altro membro del gruppo, forse per l’alto valore sacrale dell’oggetto, per cui la mancanza della cintura potrebbe indicare un passaggio di consegne dal capo morente al nuovo condottiero del gruppo, magari suo figlio39.

E’ significativo come questo gruppo di armati, per i quali il cavallo costituisce quasi un’estensione della propria esistenza, si sia stabilito nel Ducato proprio nel periodo in cui viene registrata la conversione dei longobardi beneventani al cristianesimo, che avviene in seguito al taglio della sacra arbor, attorno al quale, secondo l’agiografia di San Barbato, i cavalieri correvano in maniera sfrenata in sella ai loro cavalli celebrando un rituale che secondo Ceglia “sembrerebbe potersi ricollegare al culto per una divinità della fecondità dei campi e della caccia. All’interpretazione di una stretta relazione tra il rituale e l’esaltazione dello status di cavaliere si affianca quella del tramandarsi di un culto pagano di origine germanica assai radicato e forse ripetuto sulla scia della tradizione più che del simbolismo sociale. All’interno di questo quadro culturale, la sepoltura contestuale di uomo e cavallo bardato può interpretarsi certamente come tentativo di celebrazione di un gruppo sociale ma anche come esaltazione di un elemento tipico della cultura nomade di un gruppo allogeno40”.

Sempre presenti nelle necropoli di Vicenne e Morrione, le quali distano meno di 1 km tra loro, sono dei contenitori in ceramica dipinti di rosso, che si ritrovano in tutte le inumazioni meridionali del periodo longobardo e che possono essere individuati come uno degli elementi principali della ritualità funeraria del periodo, visto che sono presenti anche in tombe ascrivibili a soggetti autoctoni e di chiara cultura cristiana tardo-antica. Si tratta, come afferma Rotili, “di manufatti di produzione locale di cui la comunità longobarda si servì largamente dopo che aveva avuto termine la produzione di ceramica propriamente longobarda che peraltro non è attestata a sud di Nocera Umbra41”. Questa mancanza di attestazione è un ulteriore indizio del fatto che il Ducato di Benevento sia stato fondato da gruppi di armati riconducibili ai longobardi che erano però sprovvisti del supporto sociale e familiare che invece aveva portato avanti gli insediamenti nella langobardia maior, per cui i conquistatori furono costretti a ricorrere alla tradizione ceramica locale dato che non avevano un seguito all’interno del quale vi fossero civili dediti a tale produzione.

Altro ritrovamento con deposizione di armi è quello di Benevento, che pur essendo stata la capitale del Ducato, non ci ha fornito molti reperti, per una lunga serie di fattori tra cui il progressivo abbandono della pratica della deposizione di armi a favore dell’adozione della pratica dell’iscrizione funeraria sulla lastra tombale, pratica di lunga tradizione romana che rispondeva allo stesso identico scopo, cioè quello dell’esaltazione del defunto. Le armi presenti a Benevento sono sei ferri lunghi a doppio taglio, cinque ferri corti con un solo filo di taglio, undici punte di lancia, due asce, un umbone ed altri parti metalliche di uno scudo e il tutto coesiste con elementi chiaramente cristiani come le lamine e le croci funerarie. Come afferma Rotili, “il fatto che le armi abbiano conservato a lungo un valore sacrale significa che per molti decenni la progressiva acquisizione della cultura cristiana ha dovuto coesistere con manifestazione di fedeltà al paganesimo odinico e alla mitologia delle origini nutrita di valori militari e magici. La latinizzazione del costume, testimoniata dalla presenza nei corredi di calici e corni poteri in vetro, di vasellame in argento, in pietra ollare ed in ceramica di produzione locale nel VII secolo riguarda anche l’armamento del guerriero, la cui deposizione prosegue fino agli inizi dell’VIII, diversamente dal corredo femminile, la cui riduzione data al secondo quarto del VII secolo42”. In particolare nelle inumazioni femminili di Benevento, nonostante si tratti di donne di condizione medio-alta per almeno 4 di esse, mancano del tutto le famose fibule ad S che costituiscono una sorta di marchio identificativo delle inumazioni longobarde fin da prima della loro discesa in Italia. Le inumazioni femminili del periodo longobardo nell’Italia meridionale, infatti, sono quelle in assoluto più aperte alla cultura cristiana e all’elemento locale, tanto da suggerire una differenza etnica, nel senso che l’elemento femminile potrebbe essere stato del tutto assente nei gruppi armati che realizzarono la conquista, gruppi che devono essersi fusi da subito con l’elemento locale, e che poi nel corso degli anni si sono arricchiti con l’immissione di elementi longobardi provenienti dal Nord Italia, soprattutto nel caso dell’elite di governo.

I ritrovamenti archeologici, quindi, certificano la graduale assimilazione di cultura e religione degli ospitanti da parte dei gruppi armati occupanti, i quali sono evidentemente in numero limitato rispetto alla popolazione locale e alla vastità dei territori che compongono il Ducato, soprattutto perché sono sprovvisti di popolazione al seguito.

La predominanza della componente militare nel Ducato beneventano è testimoniata anche dalle modalità di insediamento: nei primi anni i longobardi si insediano o in luoghi già fortificati o in luoghi facilmente fortificabili, limitando l’azione costruttrice a opere in legno o al reimpiego, sempre di carattere militare. L’opera di fortificazione militare, che spesso doveva limitarsi ad una torre lignea, rispondeva alle esigenze di controllo delle principali vie di accesso alla valle beneventana, dei centri strategici e delle principali vie di transito, per cui il meridione viene disseminato di Hari-Berg, ovvero presidi militari che spesso diventano punti di attrazione sociale.

Dopo la conversione al cristianesimo le opere di reimpiego iniziano a coinvolgere la sfera religiosa e ben presto si passa a costruzioni ex-novo sia civili che militari.

In seguito alla Divisione del Ducato nell’849 tra Siconolfo, principe di Salerno, e Radelchi, principe di Benevento, si avvia una lenta e costante fortificazione delle linee di confine tra i due principati, spesso utilizzando fortificazioni pre-esistenti. A Siconolfo vengono ceduti i gastaldati di Taranto, Cosenza, Cassano, Capua, Sora, Conza, Montella, Cimitile, Teano, Sarno, Salerno e mezza Acerenza. Ai beneventani restano i possedimenti orientali, non specificati, ma tra cui dovevano esservi senza dubbio Lucera, Larino, Quintodecimo, Bari, Telese, Canosa, Bojano e Siponto con la già famosa Grotta di Michele Arcangelo sul Gargano. In particolare, come detto, i gastaldati di confine vengono considerati strategici e si avvia sia la fortificazione di tali siti sia la costruzione di ulteriori presidi militari, nuove opere che sono ancora ben visibili negli attuali comuni di Montella, Cervinara, Nusco, Torella dei Lombardi, Rocca San Felice, Bagnoli Irpino, Sant’Angelo dei Lombardi43.

Attorno a questi insediamenti fortificati a carattere militare, sorgeranno negli anni centri con forme urbane molto diverse rispetto alla urbe romana, certificando in tal modo l’importanza della componente militare nella società dell’Italia meridionale nel periodo longobardo alla luce della sua capacità di diventare attrattore di aggregazioni sociali che col tempo diventeranno sempre più complesse e articolate finendo col sostituire o modificare radicalmente i vecchi centri tardo-romani.

Tali insediamenti fortificati riescono spesso ad integrare al proprio interno anche attività agricole pre-esistenti in loco, diventando una sorta di villaggio produttivo fortificato, come nel caso di Montella, la cui esistenza come centro produttivo è certificata da un diploma di Arechi II del 762, che poi diventa uno dei centri fortificati più importanti lungo la linea di confine tra i due principati44.

Infine occorre ricordare come la componente militare della società meridionale non fosse prettamente longobarda ma fosse invece composta da diverse etnie, di cultura prevalentemente germanica, ma con numerose presenze di altre culture, come testimoniato dalle cronache che parlano di Slavi, Bulgari, Saraceni45 e successivamente Normanni46. Del resto la società longobarda era da sempre meritocratica ed aperta all’ingresso di elementi dalle chiare doti militari, come testimoniato dalla ben nota pratica della liberazione degli schiavi e dal caso di Droctulfo47, Duca di Brescello, originario dei Slavi o Alamanni, cresciuto tra i longobardi che poi tradirà la propria gens di adozione e passerà dalla parte di Bisanzio. Il ricorso a gruppi armati non longobardi per il controllo del territorio è certificato proprio dal caso dei Bulgari di Alzecone48 e questa pratica può giustificarsi solo con l’esiguità della gens langobardorum rispetto alla popolazione generale.

Quando poi i longobardi meridionali si divideranno tra beneventani e salernitani e questi tra salernitani e capuani, il ricorso a gruppi armati non longobardi si intensificò necessariamente per via del perdurare del conflitto a cui solo Landolfo Capodiferro riuscì a porre fine per un periodo limitato. Così i longobardi meridionali, per farsi la guerra tra loro, ricorsero ai Saraceni, la cui presenza divenne poi un serio pericolo per tutto il meridione, dato che riusciranno ad insediarsi a Bari, dando vita ad un Califfato che durò fino all’871, e in maniera ancor più minacciosa tra la foce del Liri e quella del Garigliano, sulle pendici del Monte Argento nei pressi di Scauri/Minturno, dove tennero una inespugnabile roccaforte fino al 951 quando vennero sconfitti da un’alleanza militare guidata dal Papa49.

Debellato il pericolo saraceno, per proseguire la guerra civile, i longobardi meridionali iniziarono a ricorrere ai Normanni, i quali poi conquisteranno quell’entità politica che era stato appunto il Ducato di Benevento, riuscendo a ricomporre il frazionamento politico che i longobardi aveva determinato in seguito alla guerra civile iniziata già prima della Divisio Ducatis dell’849.

In definitiva, i longobardi meridionali si caratterizzano per una predominanza dell’elemento militare, il quale determina sia la nascita del Ducato di Benevento, in un periodo di grande instabilità politica, sia la lenta, sanguinosa e inesorabile dissoluzione. Per tutto l’alto medio-evo questo elemento militare funse da catalizzatore per la rinascita e la ridefinizione interna di centri urbani di eredità tardo-antica o per la fondazione ex-novo di borghi fortificati che servivano da serbatoio di raccolta delle popolazioni che si ri-allocavano in seguito alla scomparsa dei vecchi centri tardo romani, centri che spesso decadono proprio per la mancanza di insediamenti militari.

 

1Hirsch F., “Il Ducato di Benevento sino alla caduta del regno longobardo”, traduzione di M.Schipa, Benevento 1989

2Hirsch F., op.cit. pagina 12

3Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, II, 26

4Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, II, 9

5Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, III, 33

6Hirsch F., op.cit. Pagina 12 e seguenti

7Hirsch F., op.cit. Pagina 13 e seguenti

8Si rimanda a Rotili,M. “I Longobardi: migrazioni, etnogenesi, insediamento” in I longobardi del Sud, Roma, 2010

9Rotili, op.cit. VI, 2

10Rotili, op.cit. VI, 2

11Rotili, op.cit. VI, 2

12Rotili, op.cit. VI, 3

13Rotili, op.cit. VI, 4

14Rotili, op.cit. VI, 1

15Rotili, op.cit. VI, 1

16Rotili, op.cit. VI, 3

17Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, II, 26

18Rotili, op.cit. VI, 4

19Hirsch, op.cit. Pag 13 e seguenti; Rotili, op.cit. IV

20Si rimanda a Cascarino-Silvestri, L’esercito romano: armamento e organizzazione, IV l’impero d’oriente e gli ultimi romani, Città di Castello, 2015 e a Imperatore Maurizio, Strategikon, a cura di Cascarino, Città di Castello, 2016

21Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, III, 32

22Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, IV, 18

23Vedi Hirsch, op.cit.

24Hirsch, op. cit. pagina 18 e seguenti

25Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, IV, 19

26Hirsch, op. cit. pag 23

27Hirsch, op.cit. Pag 69 e seguenti

28Borgia, Memorie Istoriche della pontificia città di Benevento, Roma, 1769

29Hirsch, op. cit. pag 70 e seguenti

30Si rimanda a Hirsch, op. cit. e a Matarazzo, Civiltà beneventana ai tempi di Arechi II, Benevento, 1989

31Eventi condensati in Rotili, op. cit., VII (Il ducato di Benevento dal IX all’XI secolo)

32Si rimanda a: Paolo Diacono, Storia dei Longobardi; Rotili, op.cit.; Hirsch, op.cit.; Erchemperto, Storia dei longobardi beneventani; Vita Sancti Barbati.

33Si rimanda a Hirsch, op. cit.

34Si rimanda a Rotili, op.cit.

35Si rimanda a Matarazzo, op. cit.; Rotili, op.cit.; Oldoni, Anonimo Salernitano del X Secolo, Napoli 1972

36Si rimanda a: Ebanista, Gli usi funerari nel Ducato di Benevento, atti del convegno di Cimitile 2010 e Ebanista, Tradizioni funerarie nel Ducato di Benevento, atti del convegno di Trento 2011

37Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, V, 29

38Ceglia e Marchetta, Nuovi dati dalla necropoli di Vicenne a Campochiaro, atti del convegno Cimitile 2011

39Ceglia-Marchetta, op. cit.

40Ceglia-Marchetta, op. cit.

41Rotili, due casi a confronto: Borgovercelli e Benevento, 3.1, atti del convegno Trento 2011

42Rotili, due casi a confronto: Borgovercelli e Benevento, 3.4 e 3.5, atti del convegno Trento 2011

43Si rimanda a Rotili, op. cit.

44Si rimanda a Rotili, op. cit.

45Si rimanda a Paolo Diacono, op. cit.

46Si rimanda a Erchemperto, op. cit.

47Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, III, 18

48Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, III, 18

49Si rimanda a Rotili, op. cit.