RADOALDO, IL QUARTO DUCA DI BENEVENTO
di Alessio Fragnito e Vincenzo Antonio Grella
Radoaldo, come detto nel precedente saggio, venne eletto Duca di Benevento nel 642 in seguito alla morte di Aione per mano di alcuni slavi nei pressi di Siponto, e per questo la sua prima impresa sarà quella di vendicare il fratello adottivo. Si lancia quindi contro gli Slavi di Siponto, come abbiamo già precedentemente descritto, ma non solo per vendetta: i longobardi di Benevento avevano bisogno di uno “sbocca a mare” e la città di Siponto svolgeva in sostanza questa funzione, per cui tutte le operazioni militari contro gli slavi sono portate avanti per far sì che i sipontini abbandonino la duratura alleanza con i bizantini per inserirsi nella sfera d’influenza politica longobarda. In sostanza la presenza degli slavi poteva diventare causa di instabilità politica, per cui la loro cacciata dalla Puglia ha il duplice effetto di stabilizzare la regione e di presentarsi ai Sipontini come alleati fedeli e come protettori militari.
La ricerca di un porto commerciale, evidentemente, doveva essere una delle priorità del Duca Radoaldo, visto che egli subito dopo si lancia alla conquista del porto di Sorrento, nel 645, subendo però una sconfitta per opera degli abitanti, che resistono all’assedio.
Tutta la vicenda dell’assedio viene raccontata in un testo del 1740 scritto da Vincenzo Donnorso1 e intitolato Memorie Istoriche della fedelissima e antica città di Sorrento:
“Dopo il Vescovo S Attanasio, padre Ughelli pone Agapito (come vescovo di Sorrento) nel 645, oscuro di patria e di cognome. Fu questo vescovo di vita molto insigne e lodata, che con le orazioni e i digiuni liberò Sorrento dalla rabbia dei longobardi. Onde a suo tempo il Duca Arechi pigliò per compagno del Ducato di Benevento suo figlio Aione, e nell’istesso del 643 dopo aver regnato 50 anni, e 5 mesi con suo figlio, se ne morì e restò Duca Aione, il quale fu nella battaglia di Siponto ucciso dagli Schiavoni nel 644 (in realtà nel 642) a cui successe Rodoaldo come quarto duca, il quale regnò cinque anni con Grimoaldo suo fratello, e morì nel 647. Nel qual tempo Rodoaldo, dopo aver vinti gli schiavoni, fatto più audace per tal vittoria, nel 648 (in realtà nel 645), con tutto il suo esercito si portò in questa nostra città con ponerci uno stretto assedio, in tal maniera che il santo vescovo Agapito, vedendo le sue pecorelle le quali si disperavano della loro vita le esortò a combattere animosamente, ed esso con fervorose preghiere supplicava il benedetto Signore Dio, e con digiuni e con orazioni, non senza grandissimi miracoli dei gloriosi SS Tutenari Renato e Valerio liberò essi e la città. Onde Rodoaldo, vedendo di non potere prendere la città, determinò offerir oro ed argento a di loro sepolcri (ovvero ai sepolcri dei santi Renato e Valerio, protettori di Sorrento), con promettere maggiori donativi se n’avessero ottenuto l’intento. Ma la mattina svegliato che fu, ritrovò tutti i doni fuori della Chiesa, che però alcuni soldati volendo entrare in detta chiesa con l’animo di mettere sottosopra ogni cosa, in un subito furono sorpresi dai demoni e tormentati sì crudelmente che menarono le loro disgraziate anime avanti del loro sepolcro, onde atterrito il Duca, spaventato l’esercito, e pieni di timore, levarono l’assedio e si portarono in Benevento, con il restar la città libera per le preghiere del santo vescovo e per l’intercessione dei santi protettori. Ma poi quanti anni questo santo vescovo avesse governato la sua chiesa ed in che tempo morisse non si sa. Se poi cortese lettore desideri sapere per qual causa questo ed altri principi del ducato di Benevento venivano a turbare questa città, ti dico che questo oprarono per il grandissimo odio che portavano ai Greci, e per impossessarsi di questa sì amena e deliziosa Repubblica, come il simile oprarono ai tempi di Zottone, come diremo nella vita di Sant’Antonino Abate2”.
Radoaldo fu Duca di Benevento dal 642 al 647 e alla sua morte l’assemblea dei beneventani elesse suo fratello Grimoaldo, che si era distinto più volte per il suo coraggio in battaglia. Dal resto la meritocrazia militare doveva costituire il principale criterio di scelta in una assemblea che era, appunto, squisitamente militare.
Si interrompeva quindi la dinastia di Arechi e per la nomina del suo successore si ricorre all’assemblea dei guerrieri, i quali eleggono anche questa volta uno “straniero” ed in particolare un friulano. Radoaldo e Grimoaldo erano infatti figli del Duca del Friuli Gisulfo II e giungono a Benevento in maniera a dir poco rocambolesca, per essere accolti calorosamente dal duca Arechi, anche egli friulano di nascita. La fuga avventurosa dei due fratelli verrà raccontata nel capitolo dedicato a Grimoaldo, qui ci limiteremo a dire che essi decisero di abbandonare la terra natia e di venire a Benevento in seguito alla morte dei loro fratelli maggiori, Caco e Tato, per opera dei bizantini di Oderzo, come racconta Paolo Diacono nella Historia Langobardorum.
“Uccisi così questi due,venne creato duca dei Friuliani Grasulfo, fratello di Gisulfo. Ma Radualdo e Grimoaldo, disdegnando di sottostare alla potestà dello zio, poiché aveva ormai raggiunto l’età giovanile, salirono su una navicella e giunsero remando fino al territorio beneventano; di lì si recarono da Arechi, duca di Benevento e un tempo loro precettore, che li accolse con grandissimo affetto e li tenne come figli”
E così, con un una fuga e quella sembrerebbe un usurpazione, fanno capolino i due fratelli friulani nella storia del Ducato di Benevento.
In realtà la storia dei due ha origini molto più lontane. Nel 610 il Friuli e sopratutto Cividale, furono investite dall’invasione degli Avari, che avevano fondato il loro khaganato3 nel territorio pannonico, come abbiamo avuto modo di vedere nei precedenti saggi. Dai tempo della migrazione molte cose erano cambiate. Il ducato del Friuli fu il primo ducato longobardo ad essere costituito e riconosciuto da Alboino nel 569 circa. Da allora i discendenti diretti di Gisulfo I4 avevano governato la regione ponendosi come una delle dinastie più potenti e durature di quella che viene tutt’oggi chiamata Longobardia Maior, con capitale Cividale. La storia del primo ducato ci dimostra come di fatto la costruzione di uno stato unitario non fosse mai stato un progetto politico nelle corde del ceto dominante Longobardo. Forte di una notevole autonomia e poggiandosi sulla solidità dei legami clanici e di fara, il ducato Friulano aveva da sempre sfidato l’autorità regia, oscillando pericolosamente in alleanze scomode e spesso apertamente in contrasto con le volontà e le necessità del neo regno di Pavia. Sappiamo per certo che Gisulfo II aveva stretto un forte accordo con i Bizantini e solo nel 603 ci fu la riappacificazione con Agilulfo5, che probabilmente non aveva perdonato il gesto e non aveva mai nutrito amore per l’autonomismo friulano. Forse fu dovuto ad un calcolo politico il non intervento del re a difesa del duca Gisulfo II, padre di Radoaldo e Grimoaldo, durante la già menziona invasione Avara del 610.
Gli Avari avevano costituito un solido dominio in grado di gettare la loro ombra egemonica su buona parte dei balcani e l’adriatico fino a bussare alle porte della stessa Costantinopoli.
L’origine di questo popolo è ancora oggetto di studio, quando essi formarono il khaganato pannonico gli Avari avevano raggiunto un tale potere da riuscire a governare numerosi popoli. Uno dei principali dibattimenti è infatti chi fossero gli “avari” durante questo periodo, infatti sembrerebbe che il termine non stesse ad indicare un gruppo etnico predefinito, quanto un considerevole numero di tribù-nazioni che obbedivano all’egida di un kagan6. L’economia di questa sorta di dominio confederale era basata principalmente sulla guerra e sulle scorrerie, o meglio la capacità di controllo si basava sulla redistribuzione della ricchezza mediante il saccheggio; mentre altri popoli, come i gruppi slavi, fornivano dei tributi e guerrieri per le spedizioni.
Il dominio Avaro seguiva la tradizione che già gli unni avevano inaugurato con l’impero di Attila, riuscendo ad ampliarne l’influenza politica e militare. Negli anni immediatamente successivi alla sua fondazione, il khaganato dovette scontrarsi con l’impero Bizantino, guidato dall’energico imperatore Maurizio. L’esito della guerra venne deciso dalle battaglie di Vidicium in cui i Bizantini inflissero pesantissime sconfitte agli Avari e fu solo grazie alle rivolte militari che colpirono l’impero che il khaganato riuscì a strappare una tregua7. Gli Avari si ripresero relativamente subito dalle sconfitte riorganizzando il loro apparato militare, tuttavia la strada per Bisanzio era ostacolata anche dal crescente potere Bulgaro e incominciare una guerra territoriale poteva rivelarsi fatale, per cui è molto probabile che le mire di saccheggio degli Avari si voltarono ad occidente.
Le parole di Paolo Diacono lasciano intendere che l’assalto degli avari fu un evento particolarmente improvviso e spaventoso:
“Intorno a questi anni il re degli Avari, che nella loro lingua chiamano cacano, entrò con un esercito sterminato nel territorio delle Venezie. Il duca del Friuli, Gisulfo II, lo affrontò audacemente con i Longobardi che potè raccogliere; ma sebbene combattesse con grande coraggio, in pochi contro un immensa moltitudine, fu circondato da ogni parte e ucciso con quasi tutti i suoi.”8
Il richiamo all’imponenza dell’armata Avara va ovviamente presa con cautela, ma è assolutamente plausibile che il khaganato potesse mobilitare un numero considerevole di guerrieri. Questo si scontrò inevitabilmente con l’incapacità dei Longobardi di mobilitare un esercito numericamente pari al nemico. Ovviamente va fatta una precisazione, l’economia Avara in questo periodo era principalmente basata sulla guerra e sul saccheggio, per cui tutti gli avari erano guerrieri e razziatori, nel caso dei Longobardi ovviamente il numero dei guerrieri era inferiore al resto della popolazione e il reclutamento degli effettivi avveniva tra le fare. Anche se bisogna tenere conto della volontà del Diacono di presentare gli Avari come eredi diretti degli Unni e quindi di esaltarne la moltitudine per suscitare stupore nel lettore9, era evidente la disparità di forze che Gisulfo II si trovò ad affrontare. Gli Avari erano principalmente cavalieri e arcieri a cavallo, con una superiorità nella mobilità tattica che non potè lasciare scampo ai coraggiosi longobardi friulani.
Gli avvenimenti immediatamente successivi narrano della fuga dal campo della famiglia del duca che trova rifugio nella capitale fortificata di Cividale. In queste righe vine descritta tutta la famiglia dei Radoaldo e Grimoaldo:
“La moglie di Gisulfo, Romilda, si chiuse insieme ai Longobardi che erano scampati e alle mogli e ai figli di quelli morti in battaglia nella cinta fortificata di Cividale. Essa aveva due figli già adolescenti,Taso e Cacco, e due, Radualdo e Grimoaldo, ancora bambini. Aveva anche quattro figlie, di cui una si chiamava Appa, un’altra Gaila; delle altre due non ricordiamo i nomi.”10
E’ assai probabile che in quell’epoca le famiglie di nobile lignaggio longobardo avessero l’usanza di seguire l’esercito e di attendere nel campo, questo spiegherebbe anche perchè si trovassero in zona e poi fossero costrette alla fuga. Dopo la sconfitta la maggior parte dei nobili si rinchiuse nei propri castelli e non osò uscire a portare guerra al nemico, gli Avari presero a fare terra bruciata delle zone circostanti. Va ribadito che nessun aiuto pervenne da Pavia ed è poco probabile che la notizia di un immensa orda Avara non fosse giunta al re Agilulfo. L’assedio si rivelò ben presto un incubo per gli assediati. Le orde dei nomadi volevano e dovevano concludere rapidamente la campagna, sicuramente disponevano dei mezzi per assaltare le mura, ma allo stesso tempo non potevano rischiare una sconfitta per cui incominciarono a fare ricognizioni lungo tutto il perimetro in cerca di punti di cedimento, ed è proprio durante una di questa ricognizioni che avvenne un episodio alquanto insolito:
“Mentre il loro re, il cacano, armato e con grande seguito di cavalleria, faceva un giro intorno alle mura per vedere da quale parte potesse più facilmente assaltare la città, Romilda, che guardava dall’alto delle mura, vedendolo nel fiore della giovinezza, lo desiderò -meretrice-infame- e subito gli mandò a dire che, se lui la prendeva in matrimonio, gli avrebbe consegnato la città con tutta la gente che vi era dentro.”11
Se dovessimo credere ciecamente alle parole di Paolo Diacono, Cividale sarebbe stata distrutta a causa della libidine della duchessa Romilda. Esistono numerose obiezioni, quesiti, domande ed anche accuse che potremmo muovere, ma purtroppo non è questa la sede adatta per snocciolare completamente l’analisi di questo evento. Ciononostante possiamo comunque affermare che tutta la costruzione narrativa di questi eventi è alquanto sospetta, ricalcando episodi passati in cui nobil donne romane si sono concesse ai capi barbarici e in particolare ai nomadi12, confermando una tradizione narrativa da cui comunque il Diacono attinse. D’altro canto il rovesciare tutte le colpe su Romilda salva i nobili Longobardi dalle loro colpe e dal loro evidente opportunismo, senza menzionare in alcun modo il totale disinteresse di Agilulfo per ciò che stava accadendo. Il Khagan ovviamente accettò l’invito e la “libidinosa” Romilda aprì immediatamente le porte della città, lasciando che le orde degli Avari saccheggiassero e riducessero la popolazione in schiavitù.
A questo punto interviene un altro elemento narrativo, ossia lo spergiuro degli Avari:
“La donna allora, senza nessuna esitazione, aprì le porte del castello di Cividale e fece entrare il nemico, per la rovina propria e di tutti quelli che vi si trovavano. Entrati così in Cividale con il loro re, gli Avari devastano e saccheggiano ogni cosa e, dando alle fiamme la città, portano con sé prigionieri tutti quelli che vi sorprendono, promettendo però falsamente che li avrebbero riportati nelle terre della Pannonia da cui erano usciti. Ma quando, tornando in patria. Giungono al campo chiamato Sacro, stabiliscono di passare a fil di spada tutti i Longobardi già arrivati alla maggior età e si dividono come schiavi le donne e i bambini.”13
Non è certo inammissibile che gli Avari avessero mentito, anzi è molto probabile che avessero accettato la presunta proposta di Romilda e una volta preso possesso della città l’abbiano messa a ferro e fuoco, come d’altronde ci confermano i riscontri archeologici del saccheggio avvenuto in quel periodo. La promessa sembrò una riproposizione dell’antico patto con Alboino, una sorta di ritorno ancestrale. Chiaramente la natura nomade degli Avari e la loro comunanza con gli Unni, spesso messa in evidenza più dai cronisti che dalla realtà dei fatti storici, si prestava ad adempiere ad una perfida nomea popolare e anche cronistica. I nomadi erano ladri, vagabondi, senza radici e fissa dimora, perciò bugiardi, lascivi ecc ecc. Questo non deve far credere, come soprascritto, che l’episodio sia totalmente inverosimile, però bisogna anche comprendere come l’efferatezza degli Avari sia uno sfondo perfetto in cui inserire le crudeli vessazioni a cui venne sottoposto il pio popolo di Cividale e come poi sia questa stessa efferatezza ad elargire la giusta punizione a Romilda:
“Quanto a Romilda,che era stata l’origine di tutti questi mali, il re avaro, per mantenere il giuramento con cui si era impegnato, la tenne una notte come in matrimonio: ma subito dopo la consegnò a dodici Avari, che, succedendosi l’un l’altro per tutta la notte, la torturassero sfogando su di lei la propria libidine. Poi dette ordine di conficcare un palo in mezzo al campo e comandò che la donna fosse impalata sulla sua punta, rivolgendole anche queste parole di biasimo : << Questo è il marito che ti meriti>>.”14
Esistono pochissime tracce che ci possano restituire la totale veridicità di queste parole. L’utilizzo di determinate torture come l’impalamento sembrano essere stati utilizzati negli imperi della mesopotamia e della persia Acheminide. Non abbiamo fonti particolari che testimonino questa pratica tra i popoli nomadi, ma sembra che fosse un supplizio da riservare ai traditori e quindi sembra la punizione più idonea per una “funesta traditrice della patria”. Ma Romilda fu veramente una traditrice della patria? Non siamo in grado e non dobbiamo dare un giudizio morale o politico sulla vicenda della duchessa. Possiamo ipotizzare che ci sia una vera e propria costruzione letterale, facendo ovviamente delle ben accorte precisazioni.
Cividale venne assediata dalle orde Avare, i nobili Longobardi pensarono bene di nascondersi nelle rispettive fortificazioni, cosa poteva mai fare la duchessa Romilda? Offrire la propria mano poteva essere, sul piano delle trattative, un ottimo stratagemma per poter provare a salvaguardare almeno la vita dei propri figli e della popolazione di Cividale. Sicuramente il giovane Khagan apparteneva ad una generazione molto più spregiudicata e crudele rispetto a quella dei primi Khagan, una generazione di guerrieri predoni per cui il fine giustificava sempre i mezzi. Ingannare era assolutamente consentito. Non sappiamo quali furono le formule effettive dell’accordo, probabilmente Romilda pretese un giuramento e non sappiamo bene che per i germani il giuramento era rivestito di una sacralità ancestrale. Più che di libidine Romilda peccò di ingenuità.
D’altronde all’immagine della lussuria materna, fanno da contrappeso le figlie di Romilda:
“Le sue figlie però non seguirono l’esempio della lussuria materna, ma attente, per amore della castità, a non venire contaminate dai barbari, si misero sotto la fascia, fra i seni, delle carni di pollo crudo che, putrefacendosi con il calore, emanavano un odore fetido. E quando gli Avari provavano a toccarle, sentendo l’odore insopportabile, credevano che puzzassero così per natura e si allontanavano da loro disgustati, dicendo che le Longobarde facevano tutte schifo. Con questa astuzia dunque le nobili fanciulle sfuggirono alla lussuria degli Avari e si conservavano intatte, lasciando anche un utile esempio di come conservare la castità, se ad altre donne toccasse una simile sorte. In seguito esse furono vendute in regioni diverse e ottennero matrimoni degni della loro nobiltà. Infatti si dice che una di loro sposò un re degli Alamanni, un altra un principe dei Bavari.”15
La strenua difesa della castità viene premiata secondo il meccanismo della provvidenza, mentre il tradimento e la lussuria vengono punite. Tutto ciò sembra però una cornice narrativa volta a preparare il lettore per ciò che verrà di seguito. Dopo la triste storia della caduta di Cividale, Paolo Diacono esordisce presentando la sua discendenza, narrando le gesta del suo illustre antenato Leupchis. Una narrazione avvincente in cui non mancano richiami narrativi alla storia ancestrale, magica e totemica del mondo germanico, e sopratutto di liberazione.
“Dunque, al tempo che la gente dei Longobardi venne dalla Pannonia in Italia, arrivò insieme con loro pure il mio trisavolo Leupchis, anche lui longobardo. Dopo essere vissuto in Italia per alcuni anni, egli morì lasciando cinque figli ancora bambini che il turbine della prigionia, di cui abbiamo appena detto, afferrò e trasportò esuli dal castello di Cividale nella terra degli Avari. Per molti anni sopportarono lì la miseria della schiavitù e giunsero all’età virile: allora, mentre quattro di loro- di cui non ricordiamo i nomi- rimasero nell’angustia della prigionia, il quinto fratello, chiamato Lopichis, che fu poi mio bisnonno, ispirato, così crediamo, dal Padre della misericordia, decise di liberarsi dal giogo della schiavitù e di andare verso l’Italia, dove ricordava che viveva la gente longobarda, e ritornare alla pienezza della libertà. Messo in atto il suo proposito, prese la fuga, non avendo con sé che l’arco e la faretra e appena un po’ di cibo per il viaggio e senza sapere affatto in che direzione muoversi: ma un lupo gli si avvicinò e divenne suo compagno di viaggio e sua guida. E poichè il lupo camminava davanti e si girava spesso a guardare dietro di sé e si fermava se lui si fermava, lo precedeva se lui camminava, capì che gli era stato mandato dal cielo, per mostrargli la strada che non conosceva. Ma dopo che furono mandati avanti così per diversi giorni nella solitudine dei monti, il poco pane che aveva venne a mancare completamente al viaggiatore. Continuò il cammino digiuno, ma alla fine stremato dalla fame, tese il suo arco e cercò di uccidere con una freccia il lupo per poterselo mangiare. Ma il lupo, prevenendo il colpo, sparì dalla sua vista. Lui allora, non sapendo dove dirigersi ora che il lupo era andato via, e troppo indebolito dalla fame, disperando ormai della vita, si gettò a terra e si addormentò; e nel sonno vide un uomo che gli diceva: <<Alzati! Perchè dormi? Prendi il cammino dalla parte verso il quale tieni rivolti i piedi;là sta l’Italia, dove vuoi arrivare>>. Egli si alzò subito e prese a muoversi verso la direzione che gli era stata indicata nel sogno; e presto arrivò a un’abitazione umana. Viveva infatti in quella zona un gruppo di Slavi. Solo una donna, ormai vecchia, lo vide, e subito capì che era fuggito e che moriva di fame. Impietosita, si avvicinò a lui, lo nascose in casa e in gran segreto gli dette del cibo, poco alla volta, per non ucciderlo del tutto se lo avesse lasciato mangiare a sazietà. E così lo nutrì con saggia misura, fino a che egli si rimise e potè recuperare le forze. Quando lo vide ormai in grado di mettersi in viaggio, gli dette del cibo e gli spiegò da che parte dirigersi. Dopo pochi giorni egli entrò in Italia e giunse alla casa in cui era nato: era vuota e abbandonata, tanto che non aveva più tetto e dentro era piena di rovi e di spine. Li tagliò e tra le pareti trovò un grande frassino e quello appese la sua faretra. In seguito, aiutato con doni da parenti e amici, riedificò la casa e prese moglie, ma non potè recuperare nessuno dei beni che aveva avuto suo padre, perchè venne escluso dal loro godimento da chi li aveva occupati con un ormai lungo continuo possesso. Questi, come ho gia detto, fu il mio bisnonno. Egli generò infatti mio nonno Arechi, Arechi mio padre Warnefrit e Warnefrit dalla moglie Teodolinda generò me, Paolo e mio fratello Arechi.”16
Questo lungo passo meriterebbe un intero saggio interpretativo. Per attenerci al nostro scopo, dobbiamo evidenziare come secondo il Diacono, tutti i mali subiti dai suoi antenati siano responsabilità di Romilda. Sembra altresì che egli abbia creato un mito delle proprie origini , inserendolo perfettamente nel quadro più complesso ed articolato della storia del proprio popolo, trovando nella duchessa una sorta di Pandora.
Cosa ne fu dei figli di Gisulfo e Romilda? Essi scoprirono in effetti l’inganno degli Avari e lesti si organizzarono per la fuga. La rocambolesca vicenda ebbe come personaggio principale il piccolo Grimoaldo, ma della sua storia e della sua fuga parleremo in maniera più dettagliata nel saggio successivo.
Taso, Cacco, Radoaldo e Grimoaldo riuscirono a tornare in patria e a rivendicare l’eredità paterna.
Taso e Cacco incominciarono a governare insieme il ducato e il loro primo impegno fu una lotta serrata contro gli Slavi, che avevano occupato il territorio compreso tra la regione Zellia e una località chiamata Medaria. Lo scontro si risolse a favore dei due fratelli che riuscirono a sottomettere gli Slavi, tanto che questi gli pagarono per decenni un tributo ai duchi del Friuli17. Probabilmente gli Slavi entrarono a fare parte dei contingenti armati del ducato Friulano.
Taso e Cacco non ebbero un felice destino, furono trucidati in una congiura ordita da Gregorio18, esarca Bizantino. Tale situazione sembrerebbe legata all’improvviso golpe ariano che colpì la corte di Pavia, operato da Arioaldo. Ma andiamo con ordine.
Il successore di Re Agilulfo fu il figlio Adaloaldo, primo sovrano longobardo a essere battezzato secondo il rito cattolico nel 603 nella chiesa si San Giovanni Battista a Monza. Figlio di Teodolinda, egli prese i pieni poteri nel 616 potenziando la politica filocattolica e filoromana dei genitori, e in particolare della madre. In particolare Adaloaldo promosse una complessa, ma fruttuosa, politica di pacificazione con l’esarcato Bizantino, paradossalmente proprio nel momento di maggior debolezza dell’ Impero. Per il ceto dirigente Ducale, tutta la politica di Adaloaldo sembrò un autentica follia. Benché Teodolinda avesse promosso la massiccia conversione al cattolicesimo dei Longobardi, la maggior parte dei Duchi era rimasta ariana. L’arianesimo non era semplicemente una fede, anche se eretica, ma manteneva intatta quell’identità di cui la gens e sopratutto i Duchi necessitavano per mantenere quella distanza politica che consentiva di alimentare le possibili guerre di conquista. I Duchi erano pur sempre un ceto guerriero e la guerra era l’elemento politico che li caratterizzava, una pace stabile avrebbe atrofizzato i duchi e rafforzato la monarchia. Il campione dell’opposizione ducale divenne Arioaldo, genero di Agilulfo avendone sposato la figlia Gundeperga, già duca di Torino e presumibilmente un uomo di fiducia della corte di Monza. Fervente ariano, era l’uomo perfetto per guidare la fronda che depose Adaloaldo nel 626 e lo elesse al trono come nuovo re dei Longobardi.
Qual’era la relazione tra la fronda ariana e l’assassinio di Taso e Caccone?
I due signori del Friuli si recarono ad Oderzo per essere adottati dall’esarca di Ravenna in persona, il già nominato Gregorio. Questa particolare adozione, che prevedeva il tagliò della barba, non deve stupirci. Probabilmente essa faceva parte di un piano per potenziare l’autonomia del ducato Friulano, nulla di diverso dalle strategie già usate in passato. La problematica riguardava ciò che accadde nella corte regia. Taso e Caccone erano partigiani di Arioaldo e probabilmente diedero il loro appoggio al cambio di regime, ma la politica dell’esarcato era di tutt’altro avviso. In lotta per la sua sopravvivenza, l’Impero Bizantino avrebbe di lì a poco riformato completamente il suo apparato, sancendo la morte dello stato tardo antico. L’esarcato oramai cercava di difendersi da solo, appoggiandosi ad una complessa politica di equilibrio, oscillando tra il papato e la monarchia Longobarda, cercando ovviamente di non compromettere il delicato equilibrio della penisola. Gregorio e tutto l’esarcato parteggiavano per Adaloaldo e quindi Taso e Caccone dovevano morire. Tuttavia questa ipotesi, benchè sia abbastanza accettata e comprovata, mostra delle incongruenze, sopratutto nella macchinosità dei piani Bizantini. Purtroppo non siamo ancora in grado di comprovarne l’assoluta veridicità, ma tutti gli indizi ci portano a supporre che l’assassinio dei due fratelli Friulani fosse ben piazzato in uno schema Bizantino per il sostegno alla politica di Adaloaldo.
Ma le ripercussioni colpirono naturalmente il ducato friulano, Grasulfo II divenne duca. Egli era il fratello di Gisulfo II e per tanto zio di Taso, Caccone e di Radoaldo e Grimoaldo. Molto probabilmente ciò mise l’inquietudine nel cuore dei due giovani fratelli, che essendo gli eredi legittimi erano dei bersagli ideali per una congiura. Oltre tutto l’attuale situazione politica non gli permetteva di cercarsi alleati, l’unica soluzione fu dunque un esilio volontario. Il lontano e autonomo ducato di Benevento, guidato da Arechi I, anch’egli friulano, dovette sembrare una scelta più che vantaggiosa.
Durante il governo di Radoaldo, che durò dal 642 al 647, a Pavia venne emanato l’editto di Rotari, l’insieme delle leggi dei longobardi. E’ certo che tale editto avesse valore anche per i longobardi del meridione, visto che poi in seguito al crollo del regno di Pavia per opera dei franchi nel 774, i principi beneventani continueranno a legiferare aggiungendo altri capitoli di legge a quelli già esistenti, che si conservano ancora oggi come un corpus unico.
Per comprendere l’importanza non solo giuridica dell’editto, occorre partire dall’ultimo capitolo ovvero il 386, nel quale Rotari afferma che “il presente editto delle nostre disposizioni, che abbiamo composto con il favore di Dio, con il massimo zelo e con le massime veglie concesseci dalla benevolenza celeste, ricercando e ricordando le antiche leggi dei nostri padri che non erano scritte e che abbiamo istituito, ampliando, con pari consiglio e consenso con i principali giudici e con tutto il nostro felicissimo esercito, quanto giova al comune interesse di tutta la nostra stirpe, abbiamo ordinato che sia scritto su questa pergamena …. e inoltre anche confermandolo con il Gairethinx, secondo l’uso della nostra stirpe, in modo che tale legge sia stabile e sicura”.
Possiamo quindi vedere come la legittimità a legiferare da parte del Re è garantita dalla Assemblea delle Lance, ovvero dall’insieme del popolo in armi, che costituisce la fonte unica del potere e della giustizia. Il termine Gairethinx, che significava appunto Assemblea delle Lance (Gaire significava Lancia e Thinx significava unione sacra), col tempo passerà ad indicare il giuramento a cui dovevano sottoporsi i longobardi in caso di testimonianza in un processo o al momento della stipula di un atto di vendita e acquisto con terzi. In pratica la Gairethinx era ciò di più sacro ai longobardi che ci potesse essere, e violare quest sacralità significava perdere ogni diritto che un uomo longobardo aveva dalla nascita.
La prima parte dell’Editto di Rotari è dedicato all’esercito, ad indicare come la componente militare fosse fondamentale nella società longobarda tanto da costituire il punto di partenza delle proprie leggi. Innanzitutto si marca l’importanza della figura del Re come capo supremo dell’esercito e quindi del popolo longobardo, intatti il primo articolo recita: “Se un uomo trama o si consiglia contro la vita del Re, la sua vita sia messa in pericolo e i suoi beni confiscati”. Dello stesso tenore il secondo articolo, che afferma l’infallibilità del giudizio del Re nell’amministrazione della giustizia e in particolare nel caso di condanne a morte, perché “….dal momento che crediamo che il cuore del re sia nella mano di Dio, non è possibile che un uomo possa scagionare colui che il re ha ordinato di uccidere”. I successivi otto articoli definiscono punibili con la condanna a morte, sempre secondo la formula “la sua vita sia messa in pericolo” alcuni reati tipici di una situazione di guerra: la fuga al di fuori della provincia (da intendersi come il Regno longobardo); l’aiuto dato ad un nemico per farlo entrare nella provincia, ovvero all’interno del Regno; il sostegno dato a delle spie; la rivolta contro il proprio duca o contro colui che è stato messo dal Re alla guida dell’esercito (da intendersi alla guida del proprio drappello, all’interno del quale si è obbligati a prestare servizio militare); il tradimento del proprio compagno durante una battaglia; la creazione di un tumulto durante un’assemblea (che però era punita non con la morte ma con la multa di 900 solidi, cifra esorbitante).
Il termine “la sua vita sia messa in pericolo” lo possiamo considerare sia come una punizione ancora peggiore della condanna a morte, nel senso che chiunque può eseguire la condanna a morte ma anche come una possibilità di scagionarsi dalle accuse mediante un duello giudiziario, che viene definito dalla legge numero 9 dell’editto, la quale recita: “Se qualcuno accusa un uomo dinanzi al Re di un crimine punibile con la morte, sia consentito a chi è stato accusato di dar soddisfazione tramite giuramento e di scagionarsi. Se sorge una tale causa ed è presente l’uomo che ha mosso l’accusa, sia consentito (a chi è accusato) di stornare da sé l’accusa, se ne è in grado, per mezzo di un campione, cioè di un duello. E se (l’accusa fatta) contro di lui è provata, perda la vita, paghi una composizione, quanto piace al Re, Ma se non si può provarla e si accerta che è stato accusato dolosamente, allora chi ha accusato e non ha potuto fornire prove paghi il proprio guidrigildo, metà al Re e metà a colui contro il quale era stata mossa l’accusa”.
Il guidrigildo è il valore di una persona, ovvero la somma che si deve pagare nel caso di omicidio di quella persona e dipende dal rango sociale della persona e può raggiungere cifre astronomiche, anche superiore alle migliaia di solidi. Ovviamente chiunque poteva scagionarsi da ogni accusa, tranne le accuse mosse dal Re in persona, ma spesso poteva capitare che l’accusato fosse una donna o un vecchio o in ogni caso una persona incapace di difendersi in duello perchè non abile con l’uso delle armi. In questo caso, quindi, le legge prevedeva la possibilità di scagionarsi facendo duellare un altra persona al posto proprio, un familiare, un congiunto o più semplicemente un “campione”, ovvero una persona abile nel duello, che “è in grado” di difendersi da queste accuse.
Ovviamente quello che possiamo definire come un “duello giudiziario” era considerato qualcosa di sacro, in quanto entrambi i duellanti si sottoponevano ad una sorta di “giudizio divino” e per questo motivo, nella legge numero 368 infatti possiamo leggere che “Nessun campione presuma, quando va a duellare con un altro, di portare su di sé erbe che hanno proprietà malefiche, né altre cose di simile natura, ma soltanto le sue armi, come sono state stabilite. Se c’è il sospetto, il giudice le cerchi e se vengono trovate siano strappate e gettate via. Dopo questa ricerca il campione tenda la mano nelle mani dei parenti; davanti al giudice rendendo soddisfazione dica di non avere su di sé nessuna cosa di tale natura, che abbia proprietà malefiche, quindi vada in duello”.
La possibilità di alterare il giudizio divino mediante erbe magiche che potevano rendere il campione invincibile, era evidentemente considerata come reale, per cui prima di ogni duello, i contendenti venivano perquisiti e gli venivano date solo quelle armi che erano state concordate tra di loro prima dell’inizio del duello.
L’editto dedica i primi articoli di legge ad una classe di longobardi bene definita: gli exercitales, ovvero gli uomini arruolati durante il servizio militare, che era obbligatorio e illimitato nel tempo ma circoscritto a campagne militari che avevano una durata molto variabile e in tempo di pace era in sostanza abolito e sostituito in minima parte dalla cosiddetta “sculca”, ovvero l’insieme dei compiti di polizia urbana, compreso anche eventuali lavori di manutenzione al patrimonio pubblico, ovvero del Re o del Duca.
Importante è l’articolo 21 che recita: “Se qualcuno rifiuta di andare nell’esercito o in servizio di guardia, paghi una composizione di 20 solidi”, ovvero una cifra abbastanza abbordabile per l’epoca, soprattutto se rapportata ad altre compensazioni in denaro che vengono stabilite negli altri capitoli dell’editto. Il rapporto tra singolo esercitale e suo superiore militare è basato sulla disciplina ma come recitano gli articoli 23 e 24: “Se un Duca maltratta ingiustamente un suo esercitale, il Gastaldo aiuti quest’ultimo fino ad accertare la verità e gli faccia ottenere giustizia di fronte al Re” e, viceversa, “Se un Gastaldo maltratta un suo esercitale senza ragione, il Duca aiuti quest’ultimo fino ad accertare la verità”. Allo stesso tempo, come afferma l’articolo 22, “se un membro dell’esercito nega aiuto al proprio duca nel rendere giustizia, paghi una composizione di 20 solidi” e soprattutto “se un esercitale rifiuta la giustizia dal suo duca, paghi 20 solidi” come recita l’articolo 20. La garanzia di tornare in possesso di ogni proprio bene al ritorno dalla campagna militare è sancita dall’articolo 25 che recita: “se qualcuno richieda i suoi beni a un altro nell’esercito e non vuole restituirglieli, allora (egli) vada dal Duca” a reclamare giustizia.
Dopo le disposizioni militari troviamo gli articoli di legge che sanzionano comportamenti che ci appaiono decisamente inconsueti ma che invece dovevano rappresentare una sorta di usanza che il legislatore si impegna ad estirpare. L’articolo 15 ci parla del “Grabworfin”, che consiste nella violazione del sepolcro di un morto e della spoliazione del cadavere: l’autore di tale misfatto “sia condannato a pagare 900 solidi ai parenti del sepolto e se non ci sono parenti prossimi, allora persegua la colpa il Gastaldo del re o lo Sculdascio e lo riscuota per la corte del Re”. La spoliazione dei cadaveri era proibita anche se si trattava di episodi accidentali, come nel caso del “Rairaub”, sanzionato dall’articolo 16: “Se qualcuno trova un uomo morto in un fiume e lo spoglia e lo nasconde, paghi 80 solidi ai parenti”.
Molto significativo era l’articolo 26, che sanzionava il Wegworin, traducibile letteralmente con “blocco stradale”: “Se qualcuno per la strada contrasta il passo ad una donna o ad una ragazza libera oppure la oltraggia in qualche modo paghi una composizione di 900 solidi, metà al re e metà a lei o a chi ne detiene il Mundio” ovvero al suo protettore, che poteva essere suo marito, suo padre, suo figlio, suo zio materno, il suo parente maschio più prossimo. Se invece si tratta di un uomo libero, un aldio o un servo pagherà soltanto 20 solidi, come stabilito nei capitoli 27 e 28.
Interessanti sono l’articolo 30, che punisce il “Mahrwofin”, affermando che “se qualcuno getta a terra da cavallo un uomo libero, gli paghi una composizione di 80 solidi, se gli provoca danni paghi il resto delle composizioni”; e l’articolo 31 che invece sanziona il “Walupaus” stabilendo che “se qualcuno si traveste con abiti altrui o si maschera la testa o il volto per rubare o provocare violenza contro un uomo libero paghi una composizione di 80 solidi.
La violazione del domicilio di un uomo libero era un gesto deprecabile, sanzionato nell’articolo 32: “se un uomo libero entra di notte nella corte di un altro e non porge le mani per essere legato, sia ucciso, se porge le mani e viene legato, paghi 80 solidi”, ma se è un servo saranno solo 40 solidi, come stabilito nel capitolo 33.
I capitoli 35 e seguenti sono relativi ai tumulti, proibiti ovunque e sanzionati con pesanti multe: 40 solidi per aver provocato un tumulto in chiesa, fino a 24 solidi nella città dove si trova il Re, con la morte e la confisca di tutti i beni se il tumulto è provocato nel palazzo dove risiede il Re, soltanto 12 solidi se il tumulto scoppia in città e se si tratta di un servo pagherà fino a un massimo di 6 solidi.
Gli articoli dal 41 al 73 definiscono le cosiddette “composizioni” ovvero un pagamento in denaro per i danni arrecati agli uomini liberi. L’obiettivo delle composizioni era quello di evitare la cosiddetta “faida” ovvero la vendetta familiare che era in sostanza illimitata nel tempo e a discrezione della persona che si sentiva offesa, dato che, evidentemente, nella società longobarda delle origini era consuetudine farsi giustizia da solo e doveva esserci una sorta di “diritto alla vendetta” di un proprio congiunto o familiare. Le composizioni stabilivano, ad esempio che legare un uomo libero era punito col pagamento di due terzi del suo guidrigildo; percuotere in pubblico un uomo libero era punito con il pagamento di metà del suo guidrigildo; percuotere un uomo libero durante una rissa poteva costare da 3 a 12 solidi di ammenda. Dare un pugno a qualcuno costava 3 solidi, uno schiaffo sei, procurare ferite alla testa da 6 a 18 solidi e fino a 36 se vi erano fratture, la perdita del naso o dell’occhio costava metà del guidrigildo del ferito, una cifra talmente elevata che ancora oggi si dice “costa un occhio della testa” per indicare qualcosa di molto caro. Ogni parte del corpo aveva un costo e tutto veniva giustificato con la necessità di rendere illegale la faida, come afferma lo stesso legislatore nell’articolo 74, dove si legge che “Per tutte queste ferite o lesioni summenzionate, che si verifichino tra uomini liberi, abbiamo stabilito delle composizioni maggiori rispetto ai nostri antenati affinché, dopo aver ricevuto la suddetta composizione si ponga fine alla faida, cioè all’inimicizia, e non si reclami ulteriormente, né si coltivino più propositi dolosi, ma la questione sia da loro considerata chiusa e rimanga l’amicizia”.
I capitoli dal 76 al 102 sono relativi all’Aldio (Aldus) e al Servo Ministeriale (il servo esperto nelle case padronali), i quali come detto sono da considerarsi uomini semi-liberi, che hanno il diritto di abbandonare il proprio arimanno protettore se questi lo tratta male. Anche per loro sono definite delle composizioni, molto più basse rispetto agli uomini liberi. Ad esempio ferire un aldio poteva costare da 1 a 4 solidi. Le ferite alla testa costavano da 2 a 4 solidi, oltre alle spese mediche e solo la perdita di occhio o naso arrivava a costare metà del suo guidrigildo.
I capitoli dal 103 al 126 sono relativi invece al servo rustico (Servus Rusticanus): per loro i risarcimenti sono ancora più bassi: le ferite al volto costano 1 solido, la perdita del naso 4 solidi e cure mediche, l’orecchio tagliato 2 solidi e soltanto la perdita dell’occhio può costare metà del suo guidrigildo.
Decisamente più cari erano i risarcimenti per gli omicidi delle persone, le cui famiglie dovevano essere risarcite anche nel caso la vittima fosse stata l’autore dell’assalto nei confronti del suo assassino. L’uccisione di un aldio costava 60 solidi, di un servo ministeriale 50 e se era poco importante anche 25, di un servo massaro 20, di un servo bovaro 20, di un servo rustico 16 e di un pecoraio o capraio o armentario da 16 a 20 solidi. Ovviamente questi soldi andavano al proprietario del servo il quale, comunque aveva diritto di vita e di morte su queste persone per cui nessuno poteva accusarlo di aver ucciso un suo servo. Viceversa la legge 13 stabilisce che “Se qualcuno uccide il proprio Signore, sia egli stesso ucciso”.
Gli omicidi degli uomini liberi erano infatti già stati affrontati nelle leggi 11 e 12 i quali stabiliscono che “se uno o più uomini cospirano per uccidere un uomo o uccidono un uomo paghino una composizione per l’ucciso secondo quanto è valutato, cioè il guidrigildo”. L’articolo 14 punisce il cosiddetto Morth, ovvero l’omicidio segreto: “Se qualcuno commette segretamente l’omicidio di un uomo libero, o di un servo, o di una serva paghi 900 solidi o il suo guidrigildo”. Ad essere punito in sostanza è la segretezza del gesto, dato che, come abbiamo visto l’uccisione in situazione pubbliche veniva punito in maniera diversa. Grande disparità c’è nel campo degli omicidi tra coniugi: se l’articolo 200 stabilisce che l’uccisione di una donna libera da parte del marito deve essere punita con una ammenda di 1200 solidi, viceversa per l’uccisione di un uomo libero da parte della moglie è prevista la morte e la confisca di tutti i suoi beni (articolo 203). L’uxoricidio, in sostanza, era equiparato al normale omicidio di una donna libera, che era sanzionato dall’articolo 201 e stabiliva che l’uccisione intenzionale di donna libera doveva essere punito con il pagamento di 1200 solidi.
Per quanto riguarda il ruolo della donna nella società longobarda, è molto significativo l’articolo 204, il quale recita che “ A nessuna donna libera che viva sotto la giurisdizione del nostro regno secondo la legge dei longobardi sia consentito vivere sotto la potestà del proprio arbitrio, cioè selpmundia (senza mundio) ma al contrario debba sempre restare sotto la potestà degli uomini o del re; e non abbia facoltà di donare o alienare beni mobili o immobili senza il consenso di colui sotto il cui mundio si trova”. Il mundio è da intendersi come “l’obbligo di protezione” della donna, riservato ai maschi in quanto capaci di usare le armi e quindi effettivamente in grado di garantire la protezione materiale della persona. Doveva trattarsi di una antica tradizione nata nel periodo di “germanizzazione” dei longobardi durante lo stanziamento nel bacino inferiore dell’Elba e consolidatasi durante la loro lunga migrazione verso l’Italia. Ad ogni modo la condizione della donna libera non era si totale sottomissione al proprio “mundualdo”, ovvero al detentore del mundio, come infatti recitano alcuni articoli, “Se qualcuno, avendo in potestà il mundio di una ragazza o donna libera, a meno che non sia il padre o il fratello, attenta alla sua vita, o vuole darla in sposa senza la sua volontà, o la fa violentare, perda il mundio e la donna potrà o tornare dai suoi parenti o recasi alla corte del Re”. Lo stesso valeva nel caso di un accusa di adulterio non provata, o nel caso di una pubblica accusa di stregoneria. Ancora peggio poteva andare a chi offendeva le donne libere in pubblico, l’articolo 198 recitava infatti: “Se qualcuno offende una donna il cui mundio non appartiene a lui (chiamandola adultera, prostituta o strega), paghi 20 solidi e se insiste, affronti in duello il campione della donna”. Si poteva anche quindi rischiare di morire in duello nel caso di un’offesa pubblica ad una donna libera, come del resto realmente accaduto perfino nella corte longobarda.
Oltre a questo, le leggi longobarde stabiliscono che la donna libera aveva diritto a diverse “doti” in occasione del proprio matrimonio. Innanzitutto occorre dire che il matrimonio longobardo iniziava con i cosiddetti “sponsali”, ovvero la stipula di un contratto tra il marito e il Mundualdo della sposa, ovvero colui che ne deteneva il mundio, e in questa occasione si stabilisce la Meta, ovvero la dote che il marito dona alla famiglia della donna.
Parte di questa Meta poteva essere data alla donna, anche sotto forma di Faderfio, ovvero una dote lasciata a lei dal suo mundualdo, in seguito alla quale la donna non poteva più rivendicare eredità nella sua famiglia di origine.
Qualche mese dopo gli sponsali e non più tardi di due anni dopo, avveniva la consegna della sposa al marito, le Nozze vere e proprie, che vedevano alcuni passaggi chiave: la Traditio Mulieris, ovvero la consegna della donna al marito, seguita dalla Subharratio Anuli, la consegna dell’anello nuziale dallo sposo alla sposa, dopo di che può avvenire l’Osculum Intervieniens, cioè lo scambio di baci, ed infine vi era la Deductio in domum mariti, ovvero l’ingresso nella sua nuovo casa da parte della donna.
Il mattino dopo la prima notte di nozze vi era la consegna del cosiddetto Morgengabe (il dono del mattino) e che era una dote personale alla donna che non poteva superare, per legge un quarto delle ricchezze totali del marito. La consegna del morgengabe doveva avvenire in pubblica piazza e davanti a dei testimoni, in modo che la donna non potesse più rivendicarne la consegna e che il marito non desse più delle ricchezze che gli era consentito darle.
La donna era protetta anche dalla violenza, ad esempio, l’articolo 186 recita che “se un uomo fa violenza ad una donna e la prende in moglie contro la sua volontà sia condannato a pagare 900 solidi, metà al re, metà ai parenti. La donna abbia, assieme ai suoi beni personali che le spettano per legge, licenza di scegliere chi debba avere in potestà il suo mundio, vuoi il padre, se ce l’ha, vuoi il fratello, vuoi il barba (lo zio materno), la mano del re: sia facoltà della donna, come ella stessa sceglie per sé”. In sostanza quindi i cosiddetti “matrimoni riparatori”, ovvero l’usanza di prendere in moglie una donna dopo averla violentata, venivano annullati e la donna, rientrata in possesso dei suoi beni poteva scegliere con chi andare a vivere, ovvero da chi farsi proteggere, compreso il Re stesso, il quale aveva l’obbligo di accogliere come mundualdo tutte le donne del regno che non avevano più nessun protettore e molte di esse poi venivano inserite nell’economia della Curtis Regia come lavoratrici. Successivamente, man mano che l’elemento cattolico diventa importante nella società longobarda, le donne rimaste senza mundualdo, spesso, si recheranno presso monasteri e conventi, facendo sì che l’abate del luogo ne detenga il mundio.
1In realtà l’autore sarebbe un suo congiunto, il padre domenicano Antonino Donnorso
2Sant’Antonino Abate, patrono di Sorrento, era un monaco benedettino di Montecassino, che fu costretto a fuggire dal monastero quando questo venne distrutto dai longobardi di Zottone. Si rifugiò a Castellammare di Stabia, dove divenne uomo di fiducia di San Catello e poi decise di ritirarsi in eremitaggio in una grotta sui monti.
3 Derivazione da Khaqan , titolo imperiale di lingua turco-mongolica
4 Gisulfo I fu duca dal 569 al 581. Nipote e strator di Alboino, divenne il primo duca in assoluto. Alobino gli concesse di scieglire le farae che avrebbero dovuto costituire il suo seguito sociale. S.Gasparri, I Duchi Longobardi, p 65
5 S. Gasparri, I Duchi Longobardi, p 66
6 W. Pohl, Strategies of Distinction: The Construction of Ethnic Communities, Brill 1998, pp. 98-99
7 Nonostante la vittoria, la guerra si protrasse a lungo minando le già provate finanze Bizantine. Il prestigio dell’Imperatore Maurizio ne uscì talmente scosso da preparare il terreno per la guerra civile che mise fine al suo regno.
Georg Ostrogorsky,Storia dell’Impero Bizantino,p.p 71-73
8 Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, Libro IV, 37
9 Per ulteriori letture , Edina Bozoky, Attila e gli Unni, il Mulino
10 Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, Libro IV, 37
11 Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, Libro IV, 37
12 Il caso più eclatante fu quello di Onoria (Ravenna 417 -Roma 455) che inviò una lettera ad Attila, spingendolo ad invadere l’Italia tra il 451 e il 452 . Il premio sarebbe dovuto essere la mano di Onoria e il trono dell’Impero Romano d’Occidente
13Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, Libro IV, 37
14 Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, Libro IV, 37
15Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, Libro IV, 37
16 Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, Libro IV, 37
17 Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, Libro IV, 38
18 Probabilmente fu esarca dal 619 al 625