I LONGOBARDI BENEVENTANI TORNANO A SAN VINCENZO AL VOLTURNO
Domenica 19 giugno 2022, in occasione delle Giornate Europee dell’Archeologia, il sito di San Vincenzo al Volturno, nel Comune di Castel San Vincenzo in provincia di Isernia, ospiterà una rievocazione storica organizzata dalla Direzione Regionale dei Musei del Molise, che vedrà impegnate l’Associazione Benevento Longobarda, il Gruppo di Rievocazione Storica “Gens Langobardorum” e il professore Federico Marazzi, uno dei massimi esperti della Storia del Monastero di San Vincenzo ed attualmente responsabile del sito, che farà una presentazione itinerante. Sarà l’occasione per rivivere gli ambienti del famoso monastero al tempo della sua fondazione per opera dei Longobardi di Benevento.
La fondazione del Monastero, infatti, è attribuita a tre giovani longobardi di Benevento, che lo istituirono intorno al 703, durante il Ducato di Gisulfo I.
La Storia del Monastero viene raccontata nel Chronicon Vulturnense1, redatto nel XII secolo, che contiene un prologo più antico, risalente alla seconda metà dell’VIII secolo, conosciuto come Autperti Vita Paldonis, Tatonis et Tasonis Vulturnensium, e che ci fornisce informazioni di fondamentale importanza per la ricostruzione della storia del mezzogiorno longobardo. In questo racconto, redatto dall’abate Autperto tra il 777 e il 778, scopriamo che Paldo, Tato e Taso, tre giovani Longobardi appartenenti all’alta nobiltà beneventana, desiderosi di intraprendere la vita monastica, intorno al 703 partirono per la Gallia, ovvero si diressero verso il Regno dei Franchi. Durante il loro viaggio sostarono presso l’Abbazia di Farfa, dove vennero accolti dall’abate Tommaso di Maurienne, di origini franche, il quale gli raccontò il suo viaggio di pellegrinaggio a Gerusalemme, dove si era recato in preghiera presso il Santo Sepolcro e lì aveva ricevuto l’apparizione della Vergine Maria che gli aveva chiesto di tornare sui suoi passi per restaurare un monastero abbandonato dedicato al suo culto, situato nel centro Italia, nella regione ancora oggi chiamata Sabina, che era appunto dove si trovava il monastero nel quale erano stati accolti. Durante il loro colloquio l’abate Tommaso a sua volta chiese ai tre nobili beneventani di tornare indietro, dicendogli:
“Vi è un luogo, o dilettissimi figli, nel quale desidero che andiate, nelle regioni del Sannio, sulla riva del fiume Volturno a circa un miglio dalla sorgente. In questo luogo si trova un oratorio consacrato al nome di Vincenzo, martire di Cristo: da entrambe le parti del fiume vi è una selva foltissima, nella quale vi sono solo il rifugio di belve feroci e i nascondigli dei ladri. Ma il Signore vi conserverà illesi in quello stesso luogo, e per tutti coloro che compiono il cammino, lo renderà sicuro e tranquillo dal timore dei ladroni e, infine, distrutti i cespugli e gli sterpi, farà abbondare alberi da frutto. Andate, o figli, andate e rimanete in quel luogo senza timore2”
Notiamo, in questo racconto, come il pellegrinaggio a scopo religioso fosse molto attivo, per cui non ci si meraviglia che un franco si rechi in medio oriente e tre Beneventani si stiano recando in terra d’oltralpe. L’abbazia di Farfa si trova a soli 40 km da Roma, nell’attuale Comune di Fara in Sabina, le cui origini longobarde trapelano inequivocabilmente dal nome stesso, e sebbene sia ubicata in un luogo di non facile accesso, si trovava non molto distante dall’antica via Cassia, che doveva essere ancora in uso, almeno a giudicare dal fatto che persone dirette o provenienti dalla Francia si trovano a passare in questi luoghi.
Come è capitato a lui stesso nel caso della apparizione mariana, l’abate Tommaso esorta i tre giovani a recuperare un antico luogo di culto, dedicato al martire San Vincenzo, caduto purtroppo in abbandono come era accaduto alla stessa abbazia di Farfa. Maggiori notizie su questo oratorio dedicato a San Vincenzo, ci vengono sempre dal Chronicon Volturnense ed in particolare da un secondo prologo redatto dal presbitero Pietro e da un altro testo ivi contenuto, secondo il quale l’oratorio venne fondato addirittura da Costantino in persona mentre si recava a Bisanzio per gettare le fondamenta della futura Costantinopoli, ed in effetti il culto del martire spagnolo era molto diffuso nei primi secoli di cristianizzazione del mediterraneo, in particolare nella penisola iberica.
In base al racconto, dunque, fin dalla sua fondazione l’abbazia di San Vincenzo al Volturno era strettamente legata all’abbazia di Farfa, come del resto ci suggerisce un altro testo composto in ambiente monastico, la Constructio Monasteri Farfensis, che narra appunto la fondazione del monastero di Farfa, nelle cui pagine troviamo scritto che l’abate Tommaso, non solo indicò il luogo esatto ai tre Longobardi beneventani, ma seguì l’atto di fondazione del monastero da protagonista. Secondo questo testo, risalente già al IX secolo, Tommaso in persona si recò dal Duca di Benevento Gisulfo per chiedergli in concessione il terreno sul quale far erigere il monastero e sovraintese ai lavori di costruzione, aiutato ovviamente dai tre nobili, i quali provvidero al finanziamento economico. Ai tre giovani Tato, Taso e Paldo, l’abate di Farfa fornì anche le indicazioni “architettoniche” su come dividere gli spazi interni3. La fine della dipendenza da Farfa sarebbe iniziata solo nel 739, alla morte dell’ultimo dei tre fondatori, i quali furono anche i primi tre abati di San Vincenzo al Volturno.
In realtà questi racconti non sono del tutto scevri da interessi politici di parte: l’abate Autperto, infatti, era di orgini franca e coprì tale carica per soli due anni, essendo poi costretto a dimettersi e a lasciare San Vincenzo per via delle sue “simpatie franche” in un periodo in cui la contrapposizione tra Franchi e Longobardi era degenerata in guerra aperta. L’abate Autperto era infatti legato alla corte franca e proprio per questo la sua nomina scatenò una ribellione dei monaci longobardi, che porterà Autperto a rifugiarsi a Spoleto, che iniziava in quel periodo ad essere governato da duchi franchi4.
In quel periodo, quindi, all’interno dell’abbazia si assisteva da una riproposizione in chiave ecclesiastica del conflitto tra Franchi e Longobardi. Basterà ricordare che dopo Autperto verrà nominato abate un certo Potone, chiaramente un rappresentante della fazione longobarda, il quale nel 782 venne denunciato dalla fazione franca a Carlo Magno perchè accusato di non aver ricordato il nome del sovrano franco durante le preghiere. Al processo, che si svolgerà a Roma dinanzi al Papa, venne chiamato a testimoniare anche Autperto, il quale però morì durante il viaggio e alla fine Potone verrà assolto dal pontefice Adriano I, con grande sdegno di Carlo Magno.
In ogni modo l’abate Autperto era senza dubbio mal visto dai Longobardi beneventani, i quali esercitavano la protezione sul monastero fin dai tempi della sua fondazione e in particolare il suo operato doveva essere malvisto da Arechi II, che intorno al 760 aveva concesso al monastero nuovi terreni con un proprio atto di donazione e che nel 774 si era proclamato “principe” di tutti i Longobardi, in contrapposizione a Carlo Magno, proclamatosi “Re dei Franchi e dei Longobardi”.
Non a caso, infatti, nel suo prologo Autperto non fa nessun cenno ai duchi di Benevento, quasi a voler nascondere il fatto che furono loro a concedere il vasto territorio di pertinenza del monastero ai tre giovani beneventani, i quali, a detta dell’abate franco, erano intenzionati a seguire la vita monastica proprio in Francia, e non in Italia. Inoltre, sempre nel Chronicon Vulturnense, troviamo la narrazione di una visita dello stesso Carlo Magno all’abbazia, alla quale rinnova le concessioni terriere, ergendola ad “abbazia imperiale”, titolo che viene evidenziato anche dal racconto di Costantino, che viene inserito nel Chronicon Vulturnense con il preciso scopo di far capire al lettore che le origini “imperiali” dell’abbazia erano antichissime, risalenti addirittura al primo imperatore cristiano.
In effetti l’abbazia venne considerata di fondamentale importanza per i tutti i governanti della regione, i quali elargirono sempre grandi donazioni, ed infatti nei secoli successivi la costruzione originaria fu ingrandita ed arricchita di ben nove chiese, una imponente basilica di San Vincenzo Maggiore e di alloggi per persone di alto rango, come appunto re, imperatori, duchi.
Nel Chronicon Vulturnense troviamo anche l’atto di donazione di Gisulfo I, riconosciuto come falso da ogni storico, ma che rimanda comunque ad un atto originario che doveva necessariamente esistere. La cosa che più ci interessa, infatti, è sottolineare come la zona che viene concessa dal duca beneventano ai tre giovani suoi concittadini, si trova in una zona non molto distante dalle città di recente conquista longobarda, ovvero Arce, Sora ed Arpino, annesse al Ducato di Benevento proprio in questi anni da Gisulfo I. Si trattava, in sostanza, di una ripetizione di quello che abbiamo visto nella conquista della Puglia: ad una conquista militare, si affiancava una conquista “religiosa”, in cui la principale protagonista rimaneva Teuderada, madre di Gisulfo, la quale finanziava opere di restauro di luoghi di culto precedentemente abbandonati o desiderosi di imponenti ricostruzioni. La costruzione ex novo o il ripristino di luoghi di culto, sebbene fosse motivata principalmente da una viva fede che la duchessa Teuderada incarnava e trasmetteva ai duchi suoi figli, otteneva anche l’effetto di far guadagnare alla classe governante longobarda le simpatie del popolo cattolico, ovvero delle popolazioni autoctone sottomesse dagli eserciti beneventani. Inoltre, le ovvie implicazioni economiche legate ai possedimenti monastici e ai santuari, obbligava la capitale Benevento a porre tali “imperi economici” sotto il proprio controllo politico, come nel caso del Santuario di Monte Sant’Angelo.
Il legame tra San Vincenzo e Farfa, inoltre, rimanda al legame tra i ducati di Spoleto e Benevento, entrambi nati in circostanze e contesti diversi rispetto ai ducati del nord, i quali a differenza di questi due erano del tutto sottomessi alla capitale Pavia. Questi due ducati periferici e autonomi, sempre retti da duchi che erano espressione della parte più bellicosa della vasta aristocrazia militare longobarda, in seguito alla cattolicizzazione modificarono di molto il proprio atteggiamento, soprattutto nei confronti del Papa, che era geograficamente molto più vicino a loro che non ai Re della Langobardia del nord Italia. La costruzione di San Vincenzo come “filiale” di Farfa, quindi non ci deve meravigliare: è molto probabile che l’abate Tommaso, in seguito alle recenti conquiste di Gisulfo e di fronte al proselitismo cattolico di sua madre Teuderada, abbia realmente chiesto dei terreni per costruire un cenobio e farlo gestire a tre monaci beneventani che si trovavano nel suo monastero. Solo alla morte dell’ultimo dei tre fondatori, infatti, il monastero di San Vincenzo divenne autonomo rispetto a Farfa, sempre restando sotto il controllo politico del duca di Benevento.
Per capire a fondo di cosa stiamo parlando occorre ricordare che il Monastero di Montecassino in quel periodo non era operativo; distrutto dai Longobardi di Zottone nel 581, giaceva in completo abbandono e rovina, con i suoi monaci che erano dovuti scappare a Roma, dove avevano conservato la Regola. Tale regola benedettina, in effetti, tornò a vivere proprio a Farfa e successivamente a San Vincenzo, per cui quello edificato da Tato, Taso e Paldo era in sostanza il primo esempio di costruzione monastica nel Ducato di Benevento.
Non essendoci esempi a disposizione nel proprio territorio, quindi, la presenza dell’abate Tommaso nel racconto delle origini del Monastero, risolve la necessità che avevano i Longobardi beneventani di avere le informazioni essenziali su “come costruire un monastero” e per questo la tesi presentata nella Constructio Monasteri Farfensis appare decisamente convincente: è probabile che sia stato proprio l’abate di Farfa, il franco Tommaso, a dare l’idea ai tre giovani beneventani e a sovraintendere i lavori di costruzione, chiedendo al Duca Gisulfo, o più propriamente a sua madre Teuderada, la donazione di terreni che facevano parte delle vastissime proprietà della corte beneventana.
Sebbene nel Chronicon Volturnense si dica che Tato, Taso e Paldo fossero diretti in Francia per aderire alla vita monastica, in realtà è molto più probabile che già facessero vita monastica all’interno dell’abbazia di Farfa, che era sorta da poco e che costituiva l’unico “exemplum” a loro disposizione. È molto probabile che sia stato l’abate Autperto a definire il regno franco come meta dei tre giovani, sempre nell’ottica del contrasto ideologico tra Franchi e Longobardi, con i primi che si sentivano in dovere di rimarcare quanto la loro “cattolicità” fosse più antica e più solida di quella dei Longobardi, che avevano osato sfidare il Papa, ai tempi in cui Autperto scriveva.
Come ci dice lo stesso Paolo Diacono, infatti:
“In questo periodo alcuni Franchi, provenienti dalla regione dei Cinomanni o degli Aurelianensi, approfittando dell’abbandono in cui ormai da molti anni si trovava il monastero di Cassino, dove giace il corpo di San Benedetto, dopo aver finto di vegliare presso i resti del venerando padre, ne rubarono le ossa insieme con quelle di sua sorella, la veneranda Scolastica, e le portarono nella loro patria, dove per l’occasione furono costruiti due monasteri in onore dei due santi5”.
Quindi anche secondo Paolo Diacono i Franchi erano decisamente più cattolici dei Beneventani, ma non solo: il monastero era abbandonato da molti anni e nessuno sembrava curarsi del fatto che qualcuno avesse trafugato le reliquie di San Benedetto e di Santa Scolastica, a testimonianza dell’incuria verso il fenomeno monastico dimostrato dai duchi di Benevento, nel cui territorio era appunto ubicata l’abbazia di Montecassino, ovvero i suoi resti abbandonati. Questo rafforza la tesi che a fare da propulsore verso la fondazione di un monastero all’interno del territorio del Ducato di Benevento sia stato un elemento esterno, ovvero l’abate di Farfa, il quale trova non solo in Tato, Taso e Paldo, ma anche in Teuderada e suo figlio Gisulfo, ottimi collaboratori per realizzare il suo progetto di espansione del movimento monastico.
Dal canto loro, il duca Gisulfo, sua moglie Teuderada e l’aristocrazia beneventana, di cui Paldo, Taso e Tato sono espressioni, vedevano nella costruzione di un monastero all’interno del Ducato, la possibilità di poter competere con il Ducato Romano anche in termini ideologici, ovvero religiosi. Con la fondazione del monastero e la contestuale costruzione di luoghi di culto cattolici, i Beneventani rafforzavano la propria autonomia politica, rinsaldando il legame tra la classe dominante, chiaramente longobarda, e le classi dominate, ovvero le popolazioni locali, nelle quali il culto cattolico era il principale collante sociale. In tal modo le popolazioni conquistate riuscivano a vedere positivamente l’arrivo dei Longobardi conquistatori e, in alcuni casi, arrivavano ad esaltare tali conquiste e a ritenere che i Longobardi fossero stati inviati da Dio per far riprendere vigore al culto cattolico, come del resto suggerito dalla “leggenda popolare” contenuta nelle Cronicae Sancti Benedicti Casinensis secondo la quale gli eserciti longobardi erano guidati in battaglia da San Michele, la cui presenza li rendeva invincibili.
Nel corso degli anni, il monastero di San Vincenzo al Volturno divenne il principale monastero del meridione e la sua fama superò ben presto i confini del Ducato di Benevento, facendo diventare l’abate del Monastero una delle figure politiche più influenti di tutta Europa.
Quando Re Astolfo occupò Ravenna e chiese a Papa Stefano II il pagamento di un tributo pare ad u solido per ogni abitante di Roma, il Papa inviò dal re longobardo gli abati di Montecassino e di San Vincenzo al Volturno, nella speranza che potessero convincerlo a desistere dal suo intento.
A questo basterà aggiungere che le donazioni al Monastero furono cospicue, sia da parte dei duchi e poi principi di Benevento, sia da parte dello stesso Carlo Magno, il quale in un diploma contenuto nel CV garantisce al monastero la totale autonomia amministrativa, sottolineando che l’Abate del Monastero deve essere eletto “liberamente” dai monaci che lo popolano.
Il riferimento alla libertà di elezione nel monastero di San Vincenzo al Volturno non è un caso: come sappiamo già nel 775, Carlo Magno aveva inviato in missione il suo fidatissimo Ambrogio Autperto, presentato come cancelliere presso la corte franca, il quale insieme a diversi monaci, entrò nel monastero di San Vincenzo e riuscì a farsi eleggere abate, rimanendo in carica negli anni 777 e 778. Come abbiamo già accennato, Autperto si darà da fare per redigere la Vita di Paldo, Tato e Taso affermando che i tre volevano recarsi in Francia per diventare monaci. La sua evidente visione politica troppo vicina ai Franchi, determinò una vera e propria ribellione dei monaci longobardi, che portò non solo alla cacciata di Autperto, il quale si rifugiò a Spoleto, ormai ducato amico dei Franchi, ma portò ad un periodo di sede vacante. Solo nel 782 venne eletto abate Potone, di chiara fede longobarda, il quale venne denunciato dalla fazione franca a Carlo Magno perchè accusato di non aver ricordato il nome del sovrano franco durante le preghiere. Al processo, che si svolgerà a Roma dinanzi al Papa, venne chiamato a testimoniare anche Autperto, il quale però morì durante il viaggio e alla fine Potone verrà assolto dal pontefice Adriano I, con grande sdegno di Carlo Magno.
Per comprendere appieno la vicenda, ci serviremo delle lettere di Papa Adriano I indirizzate a Carlo Magno e contenute nel Codex Carolinus. Nella prima lettera, datata all’inizio della primavera del 781, il Papa informa il sovrano franco che “tutta la venerabile congregazione del monastero del santo martire di Cristo Vincenzo ha chiesto a noi di intercedere per il loro abate, il quale è ingiustamente accusato da voi, ed è stato allontanato dal monastero in seguito ad un vostro ordine, ma, presentato alla vostra presenza, in tutto si farebbe apprezzare da voi, e in nessun modo qualcuno dei suoi accusatori potrà provare che egli sia colpevole di infedeltà verso la vostra regale potenza, e il crimine di cui è accusato è completamente falso. Per questa ragione domandiamo implorando vivamente con fiducia, per l’amore del beato Pietro custode dei cieli, che vi piaccia restituirlo. Poichè è giusto, in modo che possa dirigere in maniera premurosa e regolare con i suoi buoni costumi una congregazione così grande, liberarlo dalla vostra eccellente vista e che sia rimesso nel suo stato precedente da un vostro clementissimo ordine, e, su nostra richiesta, restituirlo6”.
Nella lettera successiva7, datata verso la fine dell’estate, Papa Adriano parla di un contenzioso “tra alcuni monaci del venerabile monastero di San Vincenzo e il loro abate, ovvero tra Autperto (Autbertus) e Potone (Pothone)”, e lo informa che “il predetto Aupterto, già abate, mentre era per strada, è stato colto da morte improvvisa”. Viceversa, “molti tra i monaci più importanti si sono presentati insieme al predetto Potone” per risolvere la controversia in un vero e proprio processo.
I giudici presenti erano “il santissimo arcivescovo Possessore, Ansoaldo abate del venerabile monastero di San Pietro (in terra beneventana), Aquilino abate di Varegio, Raginbaldo abate del venerabile monastero della madre di Dio (Farfa), Gisulfo abate del venerabile monastero di San Pietro, Ildebrando duca (di Spoleto), Taciperto e Prandulo, entrambi nostri servitori, il bibliotecario Teofilatto, il sacellario Stefano, il notaio Campulo, il duca Theodoro e molti altri”.
Potone doveva difendersi da due capi d’accusa che secondo Carlo Magno erano molto gravi. Il processo iniziò con la testimonianza di “Rodicauso, abate del medesimo monastero, che deponeva contro l’abate Potone”. Nella sua deposizione Rodicauso, affermava che un giorno l’abate si era rifiutato di nominare il nome di Carlo durante i salmi della sesta ora, duranti i quali “secondo la consuetudine cantiamo salmi profetici per l’incolumità del re e della sua prole”. Potone aveva detto soltanto “Dio in nome tuo fammi salvo”, senza appunto pronunciare il nome del re Carlo e poi se ne era andato subito. Rodicauso si era lamentato con lui e ne aveva ricevuto un insulto. Non solo, Potone aveva addirittura mancato di rispetto a Re Carlo dicendo che se avesse potuto lo avrebbe trattato “come un cane”.
Potone si difese da queste accuse dicendo che non aveva nominato Carlo nei salmi perchè era sopraggiunto una “opera”, un lavoro, “che andava fatto per il bene del monastero”, per cui si dovette allontanare. Durante il tragitto non disse nulla di quelle parole che Rodicauso aveva riferito, che erano da considerarsi del tutto false. A quel punto il Papa chiese a Rodicauso “se qualcun altro insieme a lui avesse ascoltato ciò che affermava, ma era solo e nessuno aveva sentito insieme a lui. Allora molti tra gli stessi monaci accusarono le stesso testimone Rodicauso” di provare risentimento verso il proprio abate e di averlo accusato in quanto Potone lo aveva punito per lo stupro della propria nipote.
Vennero poi chiamati a testimoniare tre uomini che “erano venuti con il duca Ildebrando ed erano partiti insieme ad Autperto” e che accusavano Potone di avergli impedito di recarsi dal re e di averli “messi in carcere”. Potone rispose che alcuni custodes del monastero avevano segnalato i tre uomini e visto che c’era la regola di non andare in giro (fuori dal monastero), erano stati imprigionati e quando era successo lui si trovava lontano e non nel monastero.
Il Papa quindi nella lettera cita alcuni articoli di giurisprudenza ecclesiastica approvati nei concili Calcedonense ed Africano in base ai quali decise di assolvere Potone, il quale, giurando, ribadì la falsità delle accuse e si dichiarò fedele a Carlo. Per ribadire ulteriormente la fedeltà di Potone, si decise infine di inviare dieci monaci, “cinque di stirpe (genere) franca e cinque di stirpe longobarda”, da Carlo in Francia, per riferire più dettagliatamente sulla questione.
Tra i monaci che andarono in delegazione da Carlo vi era anche Paulus Presbyter, che poi prenderà il posto di Potone alla guida del Monastero.
La Vita e Morte del Venerabile Abate Autperto, contenuta nel Chronicon Volturnense riassume questi episodi in questo modo:
“Questo santissimo padre, originario delle province della Gallia, nato da genitori assai illustri (…) in seguito venne accolto nell’aula regia dell’imperatore Carlo e (…) iniziò ad essere il più saggio maestro ed istruttore dello stesso imperatore (…) tuttavia essendo stato costruito in quei tempi dai santi padri Paldo, Tato e Taso il monastero del beato martire Vincenzo alla sorgente del fiume Volturno, e risiedendo là la grande congregazione dei santi al servizio di Dio, che era considerata la migliore quasi di tutti i principali monasteri d’Italia in quel tempo, avvenne che la fama della loro religione, risplendendo in lungo e in largo, giungesse alle orecchie dell’imperatore Carlo. Questi, spinto dall’amore divino, e persuaso dal suo maestro Autperto, dapprima volle sperimentare la verità di questa opinione, mandando al monastero un ambasciatore; in seguito, giungendo a Roma scortato da una grande schiera di potenti, per pregare alle soglie del principe degli apostoli Pietro e per vendicare la strage delle chiese del popolo e della patria, compiute le cose necessarie, con una grande moltitudine di religiosi, quali vescovi ed abati, sia di conti e marchesi al suo seguito, si degnò di accedere a questo monastero. (…) Quando lo stesso imperatore, dopo aver recato in quel luogo doni magnifici e dopo che con un regale diploma aveva confermato i possedimenti del monastero, inginocchiatosi ai piedi dei santi padri, e affidatosi assai a lungo alle loro preghiere, ricevute le benedizioni, voleva in fretta prendere la via del ritorno, Autperto, uomo del Signore, contemplati gli esempi di pia vita monastica dei santi padri, era pieno di ammirazione, e ormai il suo animo si compiaceva di diventare simile a loro. Infine trascorso questo intervallo di tempo, l’imperatore Carlo assalì Benevento e ne vessava i cittadini con un lungo assedio, pur non riuscendo a conquistare del tutto la città. Frattanto Arechi principe della stesa città, provvedendo alla salvezza dei cittadini con pia considerazione, dati come ostaggi due figli, fece pace con lui. Quindi facendo ritorno, l’imperatore si diresse al monastero del beato Benedetto e affidandosi alle preghiere dei servi di Dio, elargì ad esso molti doni e con un diploma imperiale confermò ciò che possedevano, aggiungendoci molti altri beni. Inoltre al monastero di Vincenzo martire di Cristo, offerti ad esso molti doni dai suoi beni, mandò rispettosamente sia il venerabile Autperto sia il magnifico Alcuino, maestro della regia aula imperiale, affinchè essi recassero fedelmente i suoi pii voti ai servi di Dio. Allora, dunque il venerabile servo di Dio Autperto, mosso dall’amore della santa religione, inchinandosi ai piedi dell’imperatore, gli chiese pregandolo di consentirgli di porsi al servizio di Dio, abbandonando i tumulti terreni e di rimanere nel monastero di San Vincenzo fino alla fine della vita, e di essere donato a Dio per la salvezza dell’imperatore stesso. L’imperatore udendo ciò, versate molte lacrime per la devozione dell’uomo, sebbene comprendesse di venir privato dei suoi grandi aiuti, acconsentì tuttavia, piegato dalle preghiere di molti. Seguendo l’esempio di Autperto molti abbandonando la carica che li legava alla corte imperiale, si unirono a lui nel santo proposito della fede in Dio e per amore di Dio rinunciarono completamente ad ogni bene che credevano di possedere. (…) Questo santo padre avendo servito per moltssimi anni il Signore nello stesso venerabile monastero del prezioso martire di Cristo Vincenzo, ed essendo ormai diventato per tutti un esempio di vita retta, morto il venerabile Giovanni, abate della medesima congregazione, sebbene controvoglia e resistendo, prese infine il posto del sacro comando, settimo dopo il santo Paldo. Così, da quel momento, egli si affannò ad occuparsi così nobilmente nella cura del gregge ricevuto al punto a insegnare ai suoi sottoposti, dopo aver manifestato a tutti il tesoro dei cieli, non solo i discorsi, ma anche con i suoi costumi, ad ottenere più facilmente le vere ricchezze, da preferire ai beni mondani, come insegna il beato apostolo e fece sì che questa divenisse per il suo gregge la norma. Egli ottenne poi dall’imperatore questo nobile precetto (…)8”
Il monaco Giovanni, principale autore del Chronicon Volturnense e autore di questo testo, conferma quindi che Carlo Magno fece entrare diversi esponenti della sua corte all’interno del monastero, nel tentativo di indirizzarlo politicamente. Questo tentativo ebbe inizialmente successo, consentendo ad Autperto di diventare abate.
Una ulteriore conferma proviene da un diploma di Carlo Magno, contenuto nel Chronicon Volturnense9 nel quale possiamo leggere che “il venerabile Autperto, nostro intercessore, abate del monastero di San Vincenzo, situato nel territorio del Sannio presso il fiume Volturno, destinato colà da noi….”. Per tanto è lo stesso Carlo Magno ad ammettere che fu lui a destinare Autperto al monastero di San Vincenzo.
Ma in realtà, sappiamo che Autperto entrò nel monastero prima del 761, anno in cui si registra il suo nome in un atto di vendita10, per cui solo successivamente egli divenne un punto di riferimento per Carlo Magno. Prima di diventare abate, quindi, Autperto si accreditò all’interno del monastero grazie alla sua folta produzione teologica, e la sua figura non venne mai messa in discussione. Solo dopo la conquista di Pavia, nel 774, evidentemente per ragioni politiche, all’interno del monastero si iniziarono a registrare malumori e dissapori che portarono poi ad una vera e propria rivolta dei monaci longobardi, che dovevano essere la maggioranza, che portò alla cacciata di Autperto dal monastero insieme ad altri monaci e alla nomina di Potone, che però subì la vendetta della fazione franca rimasta e venne rimosso da Carlo Magno e poi processato. Sebbene fosse stato assolto, alla fine Potone venne sostituito da Paolo, che si era recato da Carlo Magno e forse aveva dato maggiori rassicurazioni al re franco circa la sua fedeltà.
Anche lo stesso Arechi, su richiesta dell’abate Radoino, rilasciò un diploma ad Autperto11, molto probabilmente per non rompere subito con Carlo Magno, ma si tratta di una conferma di un lascito testamentario di un longobardo, per altro omonimo del principe (Arechi figlio di Radelchi), e non di una concessione di beni demaniali. Sembra quindi che tutte le donazioni fatte a Santa Sofia servissero a creare un monastero che potesse essere legato politicamente al palazzo ducale di Benevento e che quindi divenisse una sorta di antagonista di San Vincenzo, che negli stessi anni delle donazioni, sembrava essere legato alla dinastia carolingia. Non è un caso che infatti Santa Sofia sia stata poi sottoposta a Montecassino invece che a San Vincenzo. A confermare questa polarizzazione politica, vi sono non solo le concessioni dei sovrani franchi, che premiano spesso San Vincenzo, ma vi sono anche alcune donazioni fatte dal duca di Spoleto Ildebrando, che era appunto alleato di Carlo Magno:
“Durante il Regno di Carlo eccellentissimo re dei Franchi e dei Longobardi, nel quinto anno del suo regno in Italia, col favore di Dio, nel nome di Dio io Ildebrando, glorioso e sommo duca del ducato di Spoleto, doniamo e concediamo al monastero di San Vincenzo che è situato nel territorio di Benevento sul fiume Volturno, dove il venerabile abate Giosuè tiene il governo, la chiesa di San Donato nel territorio di Comino con le terre ed i monti, dove la chiesa è stata costruita….12”
Vi erano dunque diversi tentativi di porre San Vincenzo sotto l’influenza politica dei Franchi, tentativi che raggiunsero l’apice con l’elezione di Autperto ad abate ma, come abbiamo detto, ben presto la fazione longobarda del monastero si ribellò alla sua nomina e costrinse Autperto a fuggire a Spoleto dal duca Ildebrando.
A dire il vero Autperto, come abbiamo visto, non doveva essere l’unico elemento franco nel monastero e soprattuto l’immissione di monaci franchi non era stata improvvisa. Come sappiamo le due società si compenetravano, e l’Italia era la nazione che aveva fatto nascere il movimento monastico, per cui non meraviglia la presenza di Franchi a San Vincenzo ben prima che tra Franchi e Longobardi si scatenassero i conflitti militari. Soprattutto, dopo la resa di Astolfo e l’elezione di Desiderio, sembrava che i destini dei due popoli dovessero compenetrarsi e non scontrarsi a morte. Poi l’elezione di Carlo a unico sovrano carolingio impresse una deriva militare alla questione e i monaci franchi presenti a san Vincenzo, che si trovava all’interno del Ducato di Benevento ed era stato fondato da Beneventani, divennero di colpo dei nemici della patria.
Nel tentativo di estirpare l’identità longobarda dal ducato di Benevento per imporre l’identità franca, Carlo incentivò e spinse palesemente uomini legati alla sua corte ad entrare nei monasteri beneventani, ossia nei monasteri longobardi.
La stessa politica fu seguita infatti anche per il monastero di Montecassino, dove Carlo Magno inviò addirittura Alcuino di York, uno dei massimi intellettuali cristiani dell’epoca e forse di tutti i tempi, che però si trattenne per brevissimo tempo. Insieme a lui, senza dubbio, vi dovevano essere altri monaci franchi o schierati con Carlo Magno. Si trattava in sostanza in un tentativo di egemonizzare i principali luoghi di cultura del Ducato di Benevento, al fine di preparare il terreno ideologico per una franchizzazione del meridione. Sfortunatamente per lui, anche grazie ad Arechi II, l’identità longobarda era ben salda, sia nelle città che nei monasteri. Anche questo tentativo di conquista fallì.
1 In tutto l’articolo facciamo sempre riferimento alla versione italiana del Chronicon Volturnese del Monaco Giovanni curata da Massimo Oldoni, tradotta da Luisa De Luca Roberti ed edita da Volturnia Edizioni, nonché alla versione in latino disponibile on line sul sito dell’Archivio della Latinità Italiana nel Medio Evo.
2 Autperti Vita Paldonis, Tatonis et Tasonis Vulturnensium, in Chronicon Volturnense del Monaco Giovanni, I
3 Si rimanda a Federico Marazzi, Fama praeclari martyris Vincentii. Riflessioni su origini e problemi del culto di san Vincenzo di Saragozza a San Vincenzo al Volturno
4 Si rimanda a Massimo Oldoni, La terra e l’anima
5 Paolo Diacono, Historia Langobardorum, VI, 2
6 Codex Carolinum, 66, in MGH
7 Codex Carolinum, 67, in MGH
8 Chronicon Volturnense del Monaco Giovanni, Libro I
9 Chronicon Volturnense, documento 26
10 Si rimanda a Marazzi, op. cit.
11 Chronicon Volturnense, documento 22
12 Chronicon Volturnense del Monaco Giovanni, Libro I