AUDELAIS, DECIMO DUCA DI BENEVENTO
di Alessio Fragnito e Vincenzo Antonio Grella, soci di Benevento Longobarda
“Morto intanto Romualdo secondo, duca di Benevento, che aveva retto il ducato per ventisei anni, rimase Gisulfo, suo figlio, che era ancora un bambino. Ma contro di lui insorsero alcuni, cercando di ucciderlo. Il popolo beneventano però, che è stato sempre fedele ai suoi duchi, uccise quelli, salvando la vita al proprio duca.”1
Siamo di fronte alla prima spaccatura politica, interna al Ducato di Benevento. Come abbiamo letto nel precedente saggio, l’azione accentratrice di Liutprando si era spinta ben oltre i limiti politici della corte di Pavia, ed aveva seriamente intaccato le autonomie di tutti i grandi ducati periferici, ovvero il ducato del Friuli, quello di Spoleto e, infine, il ducato di Benevento. Ovviamente questa strategia politica era stata diversa in ciascuno dei ducati ed aveva sussunto le contraddizioni e le diversità sociali dei tre territori, per cui gli eventi successivi furono diversificati e misero in risalto le peculiarità dei rispettivi Ducati autonomi.
“In quello stesso tempo sorse una contesa molto grave tra il duca Penno e il patriarca Callisto. La causa della loro discordia fu questa. In precedenza, con il consenso dei duchi, il vescovo della cittadina di Zuglio, Fidenzio, era venuto a Cividale e si era stabilito entro le mura della città, fissandovi la sede del suo episcopato. Morto lui, fu ordinato vescovo al suo posto Amatore. Fino a quel giorno, infatti, i patriarchi, dal momento che non potevano assolutamente vivere ad Aquileia a causa delle incursioni dei Romani, avevano la loro sede non in Cividale, ma in Cormons. A Callisto, che era uomo di grande nobiltà, la cosa dispiacque molto, cioè che nella sua diocesi un vescovo risiedesse con il duca e i Longobardi, mentre lui passava la vita con la sola plebe. Che più? Procedette contro il vescovo Amatore, lo cacciò da Cividale e stabilì la propria residenza nella casa di lui. Per questa ragione il duca Pemmo insieme a molti dei suoi nobili deliberò contro il patriarca e, fattolo prigioniero, lo condusse al castello Pozio, che è a picco sul mare, e pensò anche di precipitarlo in mare di lì, ma poi, trattenuto da Dio, non lo fece; tuttavia lo tenne in carcere e lo sostentò con il pane della tribolazione.”2
Pemmo, Amatore e Callisto3, sono i tre personaggi che ci danno una prospettiva politica del ducato Friulano. Pemmo è duca già sotto Ariperto II, sopravvissuto al conflitto che portò al trono Liutprando è nuovamente espressione dell’aristocrazia Friulana. Ha tre figli Ratchis, Ratchais ed Astolfo, il primo e ed il terzo diverranno re dei Longobardi. Amatore divenne vescovo sotto Pemmo, le ragioni dello spostamento della residenza del vescovo di Zuglio4 sembrerebbe essere un incursione Avara che colpì la diocesi nel 705. A quel punto il connubio politico tra il vescovo ed il duca si rafforzò moltissimo e quasi sicuramente l’interazione tra le due istituzioni procurò molti vantaggi all’aristocrazia. Seguendo le parole del diacono, Callisto che era il patriarca di Aquileia aveva dovuto abbandonare la sede a causa delle incursione dei Bizantini, ma a differenza del vescovo la sua dimora era a Cormos5. Dobbiamo supporre che la plebe di cui parla Diacono sono le popolazione italiche, visto che il monaco ci tiene a specificare che Amatore vivesse con i Longobardi a differenza di Callisto. Questo ratifica la teoria che la maggior parte dei Longobardi, almeno in Friuli si fosse concentrare solo nei grandi e medi centri urbani, ed era rimasta tale, differenziandosi dalla plebe, ossia le popolazioni italiche che vivevano nella maggior parte dei piccoli centri. Dobbiamo ricordare che il ruolo di Callisto fu appoggiato dallo stesso Liutprando, quindi Callisto era di fatto legato alla corona.
Questa premessa si evidenzia nella presunta “nobiltà” di Callisto, e di fatto il Diacono non condannò l’atto prepotente del patriarca, ma anzi sembrerebbe giustificarlo a pieno, poiché appunto è assurdo che il vescovo di Zuglio, quindi una carica inferiore a quella di Callisto, dovesse godere di più considerazione rispetto al patriarca di Aquileia.
Agli occhi dell’aristocrazia di Cividale e dello stesso Pemmo, l’atto del patriarca dovette equivalere ad un affronto al potere e alle consuetudini del ducato. E’ impossibile che Pemmo non sapesse del legame tra Liutprando e Callisto, anzi è lecito pensare che la sua vendetta sia stata anche un atto di sfida nei confronti del re stesso. E’ abbastanza chiaro che in questa vicenda si misero a confronto da un lato il potere regio e dall’altro quello dell’aristocrazia Friulana.
“Quando il re Liutprando lo seppe, si adirò molto, e tolto il ducato a Pemmo, ordinò al suo posto il figlio di lui Ratchis. Allora Pemmo si preparò con i suoi a fuggire nella terra degli Slavi; ma Ratchis, suo figlio, supplicò il re e ottenere la grazia per il padre. Perciò Pemmo, avuta assicurazione che non avrebbe subito alcun male, si recò da re con tutti i Longobardi che avevano partecipato al suo consiglio. Allore il re, sedendo a giudizio, concesse a Ratchis Pemmo e ai suoi due figli Ratchait e Astolfo e ordinò loro di porsi dietro il suo seggio. Poi, levata la voce, dette ordine di arrestare, nominandoli uno per uno, tutti quelli che avevano aderito a Pemmo. Al che Astolfo, non sopportando il turbamento, fece per estrarre la spada e avrebbe colpito il re, se Ratchis, suo fratello, non glielo avesse impedito. Mentre così questi Longobardi venivano fatti prigionieri, uno di loro, Herfemar, sguainata la spada si rifugiò nella basilica del beato Michele, inseguito da molti ma difendendosi con bravura, e così egli solo, per indulgenza del re, meritò la grazia, mentre gli altri restarono a patire in carcere.”6
Possiamo dire che Liutprando riuscì a frantumare l’unità politica del ducato Friulano e piegarlo inesorabilmente alla sua totale volontà, è assolutamente lampante come la forza della corte fosse tale da non tollerare la minima insubordinazione. Il ducato è talmente indebolito che qualsiasi opposizione militare è messa fuori questione e davanti all’ira di Liutprando non si può fare altro che fuggire, chiaramente non sappiamo se le intenzioni di Pemmo erano quelle di raccogliere aiuti presso gli Slavi, ma la sua sicurezza nella fuga ci fa sospettare che avesse comunque maturano dei rapporti altre confine. Ratchis sembrerebbe fare le veci di una minoritaria ma ben lungimirante fazione lealista, ben conscia della forza del re e assolutamente non desiderosa di scatenare né guerre civili né tanto meno di porsi in aperto contrasto con la corte. Il salvataggio dalla lama di Astolfo non deve farci credere che Ratchis fosse un lealista di ferro, al contrario egli era perfettamente consapevole che la morte di Liutprando sarebbe stata una catastrofe per l’intero regno e di conseguenza anche per il ducato, che vessava in uno stato di totale debolezza. La prigionia dell’intera aristocrazia Friulana autonomista, era un sacrifico accettabile poiché indeboliva di fatto la figura del padre, ma rafforzava quella di Ratchis e dei suoi seguaci. L’atto di porre la famiglia ducale dietro il trono sanciva la superiorità politica di Pavia sul ducato del Friuli, superiorità che tutto sommato avrebbe fatto più comodo agli aristocratici supportare anziché combattere.
Di Herfemar non sappiamo nulla, evidenziamo che doveva trattarsi di un ottimo guerriero, tanto da riuscire a fuggire dagli assalitori e rifugiarsi nella basilica dedicata all’arcangelo guerriero. Tutto sommato l’episodio non è molto dissimile da quello del servo di Pertarito che si salvò così dall’ira di Grimoaldo. Diacono ritiene che fosse stata proprio l’audacia di Herfemar a fargli guadagnare la grazia, quasi a sottolineare la codardia degli altri nobili che accettarono il loro destino di prigionia. Ci viene da chiedere cosa sarebbe successo se tutti insieme fossero fuggiti combattendo verso la basilica.
Andiamo ora a vedere cosa accadeva nel ducato di Spoleto.
“In questi giorni Transamundo si ribellò al re. Ma il re mosse contro di lui con l’esercito e Transamundo fuggì a Roma. Al suo posto fu ordinato Ilderico.”7
Una rivolta stroncata sul nascere? Nel precedente saggio abbiamo visto come in realtà Spoleto stesse cercando di divincolarsi dal guinzaglio regio e come queste aspettative fossero sintetizzante nella figura di Transamundo8. Di fatto bisogna ricorda che egli divenne duca deponendo il padre Faroaldo II, proprio perchè questi era troppo accondiscendente agli ordini di Liutprando.
In quei giorni infuriava la guerra iconoclasta e le alleanze erano più che mai liquide, Transamundo si era schierato con Gregorio II ed infatti ricordiamo l’episodio narrato nel precedente saggio, quando i Longobardi spoletini e toscani difesero il papa dalle truppe dell’esarca Paolo, che vennero respinte dopo uno scontro a Ponte Salario9. Successivamente avvenne la prima ribellione del duca di Spoleto coalizzato con Romualdo II di Benevento. Transamundo II e Roma mantennero rapporti di reciproco aiuto , poiché il primo voleva mantenere l’autonomia del ducato e la seconda sfruttava questo desiderio per indebolire la morsa di Liutprando. Quando il re discese nuovamente, nel 738 circa, probabilmente l’esercito era già riunito per la guerra ancora incalzante contro l’Impero Bizantino, di fronte a questo spiegamento di forze Transamundo preferì riparare dai suoi alleati romani e riorganizzarsi. Di fatto la reggenza di Ilderico avrà vita molto breve, ma di questo parleremo nei successivi saggi.
Tornando all’azione di Liutprando è palese che il suo potere fosse ormai in grado di sopraffare le volontà autonomiste dei ducati, tuttavia dobbiamo evidenziare che mentre il Friuli aveva subito un fortissimo tracollo dovuto anche a rovesci militari e un effettivo indebolimento dell’aristocrazia . Nel ducato di Spoleto al contrario l’aristocrazia e salda e ferma nel richiedere il mantenimento delle prerogative autonome, tanto la fazione lealista sembra atrofizzata o addirittura assente, come dimostrerebbe la detronizzazione di Faroaldo da parte di Transamundo. Tuttavia la guerra che imperversava per la penisola aveva probabilmente indebolito le forze reali del ducati, forze che invece Liutprando possedeva solo sotto il profilo militare, mentre non era in grado politicamente di mettere alle strette l’aristocrazia spoletina, come era avvenuto con i Friulani, e gli eventi futuri testimonieranno questa forza dell’aristocrazia.
Quindi il Friuli domato e pacificato con Ratchis e Spoleto momentaneamente sottoposto alla reggenza di Ilderico, e Benevento?
Tornando alle righe con cui abbiamo aperto questo saggio, ci rendiamo conto che Paolo Diacono non nomina nessun cospiratore, apostrofandoli semplicemente come “alcuni” quasi a voler stigmatizzare la rivolta come una presa di posizione di una forte minoranza, rispetto alla volontà del “popolo” di riconoscere di fatto il piccolo Gisulfo II. Se seguissimo le parole del monaco saremmo tratti in inganno e credere che di fatto la rivolta fosse stata un fuoco di paglia, ma sappiamo che così non fu. Benevento aveva sviluppato una complessità sociale e un articolazione tale che poteva confrontarsi con la corte di Pavia da eguale, e proprio dalla corte di Benevento emerse l’insurrezione capeggiata da Audelais.
Come abbiamo potuto leggere, Paolo Diacono sembra ignorare questa figura, non sappiamo per mancanza di informazioni o per una ben precisa motivazione politica. Il breve regno di Audelais compare in diversi cataloghi che gli assegnano ben due anni di ducato.10Da una lettura attenta di alcuni documenti del Chronicon S. Sophiae si possono ricavare alcune notizie su questo personaggio. Una donazione fatta da Romualdo II, databile tra il 711 e il 726 , al monastero di S.Sofia i Ponticello, nomina il vicedomus e referendarius Adelais; nell’agosto del 720 inoltre, quando lo stesso duca dona una condoma11al suo stesso vestararius12 Orso,questa donazione risulta fatta “per rogum Audelais gastaldi nostri”. Tramite questi dati, possiamo dedurre che Audelais facesse parte della burocrazia cortigiana di Romualdo II, un gruppo aristocratico che si era rafforzato nei decenni successivi a Romualdo I e la cui fedeltà alla stirpe ducale era decisamente inferiore al proprio sentimento autonomistico nei confronti di Pavia.
Per comprendere l’importanza e l’organizzazione della corte beneventana, ci può tornare utile ricordare la descrizione delle cariche di corte che viene riportata nelle Memorie Istoriche della Pontificia Città di Benevento, redatte nel XVIII secolo da Stefano Borgia, che costituisce una pietra miliare della storiografia beneventana.
“Dalla multiplicità, e varietà degli uffizi, altri presi dai Latini ed altri dai Greci, che leggiamo essere stati nella corte dei Duchi e poi dei Principi di Benevento, agevole cosa è il comprendere la nobiltà e la magnificenza della medesima. Noi ne riferiremo i principali, e con la scorta del Glossario del dottissimo Du Cange, ne spiegheremo brevemente l’impiego di ciascuno.
Vi erano dunque Comes Palatii, Comes Stabuli (Conti), dei quali ci caderà in acconcio di parlare altrove. Protospatarius, o sia principe o capo degli armigeri. Marhais, ovvero Marpahis, cioè Stratore, oppure Cavallerizzo. Gastaldius, che vuol dire Economo delle Corti, poderi, ed altri effetti patrimoniali. Si avverta però che nel Ducato Beneventano anche i governatori delle città si dissero Gastaldi, onde quivi lo stesso fu l’esser Conte, cioè governatore, che Gastaldo. Topoterius, o sia Vicario del Duca, appellato anche Lociservator. Portarius, cioè il bussolante (bussola nel senso di porte di ingresso dell’Aula palatina, il luogo dove veniva amministrata la giustizia). Thesaurarius che ben si intende che impiego fosse. Referendarius, che vale a dire colui che dettava al Notajo i diplomi da scriversi, anche il segretario dei memoriali veniva sotto il nome di referendario. Actionarius, o sia Agente. Vestararius, guardarobiere. Paolo Diacono pare che prenda questo uffizio a denotare colui che porgea le vesti, ed aiutava il Principe a vestirsi. Vicedominus, cioè chi teneva le veci del Signore. Pincerna, coppiere. Basilicus, colui che portava gli ordini del Sovrano. Candidatus, così appellavasi chi invigilava nel Palazzo alla custodia del Principe, ed era questo impiego militare. Stratigus, o sia Prefetto delle città. Oltre questi uffizi ve ne erano degli altri inferiori, dei quali non occorre parlare… Noti pertanto il lettore, che alcuni dei mentovati impieghi non erano occupati da uno solo, ma da più persone; così vi erano più Candidati, più Marpahis etc…”
Possiamo quindi vedere come la corte di Benevento fosse decisamente molto articolata, come era del resto indispensabile per assicurare il governo di un territorio estramamente vasto, che comprendeva, in termini di Regioni attuali, gran parte della Campania, la totalità del Molise e della Basilicata, la quasi totalità di Puglia e Calabria, una parte di basso Lazio e di Abruzzo.
Come abbiamo visto, tutto il territorio era considerato patrimonio personale del duca, per cui, a differenza degli altri ducati longobardi d’Italia, in quello di Benevento non esistevano le “curtis regie” ovvero i possedimenti del Re, i quali vennero ceduti dai duchi alla corona in occasione dell’elezione di Autari che pose fine alla anarchia ducale nel 584.
In pratica ogni terra conquistata faceva parte della curtis ducale, era cioè proprietà del duca, il quale aveva necessità di governare questi territori mediante uomini fidati, come appunto i Conti e i Gastaldi. I Conti erano di provenienza squisitamente militare, dato che il nome (Comes) deriva dal loro essere “compagni” del Duca, nel senso di “compagni d’arme”, ovvero dal loro far parte del Comitatus militare, una sorta di gruppo ristretto di guerrieri d’èlite, che si radunavano attorno al proprio duca per campagne e conquiste militari. I Gastaldi avevano invece meno connotazioni militari, almeno nella definizione di “economo”, ovvero di amministratore del patrimonio ducale, ma non erano del tutto esclusi dagli affari militari. Entrambi, infatti, oltre ad amministrare la giustizia e a riscuotere le tasse nei territori di pertinenza, avevano anche l’obbligo di reclutare le milizie per le campagne militari, e come abbiamo visto più volte, il Ducato di Benevento riusciva ad organizzare campagne militari con frequenza maggiore rispetto allo stesso Regno di Pavia.
La ricchezza che derivava dal possesso di un così vasto territorio, forniva al Duca di Benevento la leva principale per elevarsi a regnante autonomo rispetto alla capitale Pavia ed assicurava ai beneventani un’autonomia innanzitutto economica, che rendeva più facile il raggiungimento e il consolidamento dell’autonomia politica. Come abbiamo visto, infatti, la ricchezza proveniente dai possedimenti ducali, garantiva al Ducato di Benevento la possibilità di coniare solidi aurei, cosa che invece la stessa Pavia non riusciva a fare, limitandosi a coniare tremissi auree, del valore di un terzo del solido.
Contro questa autonomia, però il nuovo Re Liutprando era intenzionato ad agire energicamente.
Infatti, il disegno egemonico Liutprandiano fece emergere con forza le differenze tra i vari ducati, e chiaramente il ducato di Benevento fu quello che espresse in maniera più netta tali differenze. Mentre negli altri due esempi vediamo come la componente aristocratica necessitasse quanto meno di un catalizzatore delle proprie aspirazioni, ben rappresentato dalla figura del duca, nel ducato meridionale abbiamo avuto lo sviluppo di un ceto aristocratico autonomo in grado di fare da sè. Il partito lealista citato dal Diacono come “il popolo” doveva essere in realtà molto meno saldo e forte di quello che il monaco vorrebbe farci credere. Se di fatto salvò Gisulfo II da un più crudele destino, essa non riuscì ad eliminare Audelais che di fatto prese il controllo, quanto meno di una parte del ducato. Solo l’intervento militare di Liutprando riuscì, momentaneamente, a riportare il ducato negli schemi regi:
“Ma poiché Gisulfo, per l’età infantile, non era ancora in grado di reggere un tale popolo, il re Liutprando, recatosi a Benevento, lo portò via di lì e al suo posto ordinò duca a Benevento il proprio nipote Gregorio, cui dette in matrimonio Giselperga.”13
Fu l’azione di Liutprando a sconfiggere Audelais e non la rivolta lealista; prendendo la data della spedizione del re come avvenuta nel 732, periodo di regno del primo anti-duca si accorcerebbe ulteriormente, dato prova della tempestività di Liutprando che non poteva assolutamente perdere il ducato meridionale.
Come successivamente farà a Spoleto, anche a meridione il re cercherà di porre uno dei suoi fidati parenti, tentativo che però non avrà gli effetti sperati come vedremo successivamente.
Di fatto il ceto aristocratico burocratico cortigiano sarebbe diventato lo zoccolo duro della resistenza autonoma del ducato meridionale, una resistenza che voleva ribadire il concetto politico su cui si era fondato il dominio meridionale, ai Longobardi di Benevento non serve un re.
Per comprendere meglio le motivazioni che stanno alla base dell’elezione di Audelais da parte dell’assemblea guerriera beneventana, sarà utile ricordare che l’anno prima, ovvero nel 731, al soglio pontificio era subentrato Gregorio III, il quale era esponente della fazione antilongobarda e quindi si diede subito da fare per intralciare il progetto di unificazione territoriale portato avanti da Liutprando.
Il nuovo Papa provò a smantellare il progetto di Liutprando dalle fondamenta ed infatti infiltrò suoi uomini a Benevento allo scopo di fomentare il partito autonomista, ovvero quella fazione di longobardi beneventani che non avevano digerito l’atto di sottomissione a Liutprando e reclamavano il ritorno alla totale autonomia, che era stata garantita dagli ultimi esponenti della dinastia bavarese, a cominciare da Pertarito.
In pratica anche i beneventani, come aveva fatto Liutprando, giocarono la carta dell’alleanza politica con “il nemico esterno” per indebolire il nemico “interno”, ovvero i beneventani, impauriti dal progetto politico di Liutprando, che avrebbe significato la perdita della propria autonomia politica, si allearono con il Papato, a cui avevano mosso guerra per un secolo e mezzo, per andare contro il proprio sovrano, colpevole di voler riportare il Ducato di Benevento sotto l’egemonia politica della Reggia di Pavia. Liutprando fu quindi il primo sovrano longobardo a marciare verso Benevento con un proprio esercito non per aiutare i longobardi beneventani bensì per occupare la città ed imporre la propria volontà.
Come detto, lo stesso anno dell’elezione di Audelais, Liutprando mosse con l’esercito nazionale verso il Sud Italia per spodestare il duca “autonomista” ed imporre un duca “lealista”.
Era la seconda volta che il Duca di Benevento non veniva eletto dall’assemblea delle lance ma veniva imposto dal Re, ma occorre sottolineare che la prima volta, quando Re Agilulfo nominò Duca Arechi I, la situazione politica era del tutto diversa: i longobardi avevano da poco posto fine alla caotica fase dell’anarchia ducale e molto probabilmente la morte del predecessore Zottone aveva creato un vuoto di potere che andava colmato subito onde evitare una frammentazione politica e una conseguente deflagrazione militare. Questa volta, invece, il ducato di Benevento era ben saldo e come abbiamo visto l’efficienza di una corte molto complessa garantiva a chiunque fosse stato Duca una decisa stabilità politica. L’atto di Liutprando, quindi, si dimostra essere una chiara ed inequivocabile dimostrazione di forza: dopo aver provato con due matrimoni a riportare il Duca di Benevento sotto il proprio controllo politico, il Re decide che è giunto il momento di stroncare definitivamente l’autonomia beneventana, nominando il proprio nipote Gregorio come Duca della città, come vedremo nel prossimo saggio.
Complessivamente, il Ducato di Audelais si presenta come brevissimo, ma molto significativo: con la sua elezione i beneventani avevano sfidato il Re Liutprando e sopratutto avevano fatto capire che l’autonomia politica del Ducato non poteva essere attenuata solo con un banale matrimonio tra il duca beneventano e una parente del Re; per limitare l’autonomia beneventana, il Re doveva mobilitare l’esercito nazionale. Solo con un atto di forza senza precedenti, infatti, i longobardi beneventani accettarono la limitazione della propria autonomia e il riconoscimento della superiorità del proprio Re, ma solo per poco. Alla prima occasione, come vedremo successivamente, i beneventani proveranno ad ottenere, di nuovo, la totale autonomia politica.
1 Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, Libro VI, 55, vv 4-9
2 Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, Libro VI, 51, vv 1-21
3 Pemmo fu duca dal 701 al 738; Callisto fu patriarca di Aquileia dal 726 al 756;Amatore fu vescovo dal 705 al 737
4 Attualmente comune della provincia del Friuli-Venezia Giulia. La sede sarà soppressa con la morta di Amatore
5 Altro comune comune della provincia del Friuli-Venezia Giulia
6 Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, Libro VI, 51, vv 21-38
7 Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, Libro VI, 55, vv 1-3
8Transamundo fu duca di Spoleto dal 719 al 744 circa. E’ dibattuta la fine effettiva del suo potere in quanto Duca
9Bertolini pone la data della spedizione nel 724, basandosi solo sull’ipotesi della coincidenza di essa con la ribellione di Transamundo, da lui erroneamente posta nello stesso anno. Si può invece solo affermare che essa ebbe luogo tra il 720, arrivo dell’esarca Paolo, e il 726/7 data della morte dell’esarca
10Catalogus regum Lang. Cit.,p 494;Cat. Benev.S.Sophiae cit.,p.160;Chron.Salern.cit.,p.3;Chronicon ducum cit.,p.212
11 Abitazione servile
12 Dignitario della corte longobarda, particolarmente nel ducato di Benevento, con l’ufficio di guardarobiere
13 Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, Libro VI, 55, vv 9-14