ARECHI II, QUINDICESIMO DUCA E PRIMO PRINCIPE DI BENEVENTO

di Alessio Fragnito e Vincenzo Antonio Grella, soci di Benevento Longobarda

 

Le due sconfitte subite dall’esercito Longobardo nel 754 e nel 756 , avevano messo in luce la profonda disparità di forze tra i due regni. Le riforme militari di Astolfo arrivarono troppo tardi e non esisteva più un vero e proprio substrato militare in grado di reggere il confronto con il sistema vassallatico beneficiario, che si stava rafforzando nel regno dei Franchi.

Di fronte alla preponderanza militare dei Franchi, Desiderio decise di dare il via ad una complessa rete di politiche matrimoniali, volte da una lato a destabilizzare il regno Franco e dall’altro a isolare il Papato. In questa ottica va visto il matrimonio tra la figlia del Re di Pavia, Liutperga con Tassillone III duca di Baviera; l’alleanza con i Bavari non era nuova e ricalcava un sentiero già tracciato da Liutprando e costituiva un prezioso caposaldo nel cuore della costellazione politica del grande regno Franco1. Solo dopo essersi assicurato un appoggio, Desiderio si intromise nelle dispute tra Carlo e Carlomanno, i due successori di Pipino2.

E’ in questo momento che si inserisce la complessa vicenda del matrimonio tra la figlia di Desiderio e Carlo; questo episodio venne celebrato nell’Adelchi di Alessandro Manzoni. Tuttavia le fonti ci lasciano ben poche certezze. L’unica fonte contemporanea risulta essere una lettera di Stefano III, scritta probabilmente tra il 24 settembre 768 e il 30 dicembre 771 e indirizzata sia a Carlo che a suo fratello Carlomanno, nella lettera il papa si scagliava violentemente contro la possibilità che uno dei due sovrani sposasse una figlia di Desiderio. Due cose erano evidenti, il papa voleva bloccare a tutti i costi il matrimonio e soprattutto non sapeva effettivamente a chi dei due sarebbe andata in sposa la suddetta principessa Longobarda3. Le fonti contemporanee non ci dicono altro. Gli Annales Mosellani, scritti alla fine dell’VIII secolo, dicono che Berta, la regina madre dei due fratelli, avrebbe portato lei stessa la principessa in Francia dall’Italia, dove si era recata in una missione tesa a ottenere le promesse restituzioni di Desiderio alla Chiesa di Roma. A questo elemento possiamo aggiungere la testimonianza di Eginardo, più recente di almeno vent’anni rispetto agli Annales Mosellani, secondo cui fu Carlo a sposare la figlia di Desiderio4.

In quel frangente Carlo e Carlomanno erano in aperto contrasto tra di loro. Alla morte di Pipino i due rampolli avevano ricevuto il regno in eredità, seguendo il costume Franco dell’appannaggio, ossia una porzione del regno a ogni erede diretto. Non era una novità per i Franchi e di fatto la divisione ricalcava gli assetti territoriali che erano stati di Pipino e del fratello di lui Carlomanno, i due erano stati incoronati lo stesso giorno d’ottobre del 768, Carlo a Saxonis e Carlomanno a Noviomem . Alla morte di Pipino scoppiarono delle rivolte, soprattutto nel territorio di Carlo, nella successiva repressione tuttavia Carlomanno non solo rifiutò l’aiuto al fratello, ma da alcune fonti sembra che ne approfittò per strappare vassalli al fratello5. Precisiamo che i domini di Carlomanno incombevano direttamente sui territori Longobardi, ed è molto plausibile che fosse questa la motivazione per cui il re longobardo avrebbe scelto Carlo. Colui che era messo maggiormente in difficoltà, con il matrimonio, era precisamente quest’ultimo; per Carlo, si trattava di recuperare un margine di manovra. Le trattative, se diamo credito agli Annales Mosellani, furono condotte sempre da Berta, la vedova di Pipino; Desiderio, dal canto suo, grazie al matrimonio di sua figlia avrebbe assunto un ruolo assolutamente determinante negli equilibri interni franchi, in un modo insperato solo pochi anni prima. Possiamo dire che l’operazione matrimoniale tra Carlo e la figlia di Desiderio, Ermerganda (?) ebbe successo e a farne le spese fu ovviamente il dominio nascente del Papa.

Il papato era stordito dalla formidabile abilità politica di Desiderio, e non riuscì a rivendicare le proprie pretese sulle terre romagnole, emiliane e marchigiane del vecchio dominio dell’Impero d’Oriente. Non è da escludere che dietro alle rivolete che colpirono numerose città dell’ex dominio bizantino, in ottica anti papale, ci fosse la affaccendata corte di Pavia.

Nell’estate del 768 morì Paolo I6 e l’intero dominio papale fu sconvolto da una feroce guerra di successione per il soglio pontificio. Una della fazioni romane in lotta chiese aiuto direttamente a Pavia e a Desiderio, che ebbe così la possibilità di intervenire militarmente dentro le mura di Roma e di osare conquistare il soglio papale sostenendo un candidato di fiducia, Filippo7. Tuttavia l’offensiva di Desiderio non riuscì ad imporre un successore filo longobardo, e dopo la salita al trono di Stefano III le truppe di Pavia furono costrette ad abbandonare la città. Nel 771 si verificò un nuovo conflitto armato in città e furono nuovamente la truppa di Desiderio a garantire la sopravvivenza del papa. Il tentativo di imporre un protettorato sul ducato romano divenne ancora più evidente quando Stefano III, pretendendo nuovamente i territori promessi, ricevette una secca e minatoria risposta dallo stesso Desiderio. Il sovrano Longobardo avrebbe detto, in modo ironico e sprezzante: «non ti e sufficiente il fatto che ti ho tolto di mezzo Cristoforo e Sergio?», con una frase in cui il latino colto lasciava il posto ad una pesante intromissione della lingua parlata ( è emblematica l’espressione «tollere de medio» impiegata in questa occasione dal biografo)8.

La forza politica raggiunta da Desiderio non sarebbe stata possibile senza un’ accurata pacificazione del regno ed in quest’ottica che si inserì l’intromissione nel Ducato di Benevento.

Nel 757, o secondo alcuni nel 758, re Desiderio si recò col proprio esercito a Benevento, per deporre Liutprando il giovane e nominare duca della città il fedelissimo Arechi II, friulano di nascita, a cui, due anni dopo, diede in sposa sua figlia Adelperga, sancendo un legame di sangue diretto col ducato meridionale e assicurandosi così il controllo di questa entità politica che era indispensabile per realizzare il progetto di unificazione nazionale longobarda che Desiderio aveva intenzione di portare avanti con la diplomazia e non con la guerra.

Insieme alla principessa e oramai duchessa Adelperga arrivò a Benevento anche Paolo Diacono, suo precettore e massimo storico del periodo. Una volta insediatosi, Arechi II, fervente cattolico, fondò la chiesa e il monastero femminile di Santa Sofia, affidandolo ad una sua sorella. Collezionò reliquie, tra cui quelle di Sant’Eliano, traslate nel 763 da Costantinopoli, e quelle di San Mercurio traslate nel 768 da Quintodecimo, dove erano state abbandonate da Costante II, secondo le fonti agiografiche.

Le traslazioni di reliquie divennero per Arechi II sia un atto di fede sia un atto politico: la sua intenzione era di creare una sorta di Santuario del popolo longobardo all’interno di Santa Sofia, arrivando a collezionare circa 400 reliquie di santi. La detenzione di tale numero di reliquie faceva di Benevento una meta di pellegrinaggio religioso, oltre che capitale politica del Ducato. Il consenso della popolazione locale, di fronte a tale collezionismo, non poteva che essere convinto ed entusiasta, alla luce della grande considerazione che si aveva del potere benefico delle reliquie.

La traslazione delle Reliquie di Sant’Eliano viene descritta in un’agiografia contenuta nella monumentale opera dell’arcivescovo Stefano Borgia che nel XVIII secolo produsse le “Memorie Istoriche della Pontificia città di Benevento”, la quale contiene numerosi testi latini del periodo medievale, molti dei quali fanno riferimento al periodo longobardo pur essendo stati prodotti successivamente. Secondo il testo agiografico, Sant’Eliano era un soldato martirizzato con altri 39 militari nel 320 nella città di Sebaste, in Armenia, al tempo dell’imperatore romano Licinio, crudele e violento persecutore dei cristiani. Esposti al gelo per un’intera notte, i 40 martiri, che poi entrarono nell’immaginario collettivo cristiano col nome dei “Santi Quaranta”, incontrarono la morte in seguito alle percosse subite. I loro corpi vennero bruciati e le loro ceneri vennero gettate in un fiume. Si narra che, per intervento della divina misericordia, le ceneri furono raccolte dal vescovo di Sebaste, conservate e disseminate in varie città, a Cefarea, a Nissa di Cappadocia, a Roma, a Brescia e a Costantinopoli, dove sorsero templi in onore dei 40 martiri. Dalle reliquie conservate a Costantinopoli vennero separate, successivamente, quelle di Sant’Eliano. Non sappiamo come sia stato possibile distinguere i resti di Sant’Eliano da quelli degli altri martiri, ma altri racconti agiografici riferiscono di corpi non completamente carbonizzati durante roghi collettivi. Non conosciamo nemmeno la natura di queste reliquie, dato che sono andate perdute nel corso dei secoli, ma molto probabilmente erano contenute in una teca. In ogni caso, ciò che restava del corpo di Sant’Eliano venne traslato da Costantinopoli a Benevento grazie all’avvedutezza e alle capacità diplomatiche di un gastaldo di Arechi II, il nobile arimanno Gualtari.

Descritto come un “uomo di fede pienamente cattolica, di bell’aspetto, sincero nel parlare, noto per saggezza, sagace nei consigli, robusto nella virtù, eccellente nei costumi e in ogni cosa onesta”, Gualtari venne scelto dal Consiglio dei nobili Arimanni per portare a termine una delicata missione politica in territorio bizantino. Non si sa con certezza lo scopo di questa partenza, ma è probabile che trovasse le sue ragioni nella necessità di distendere i rapporti con Bisanzio.

Come sostiene l’agiografia, solo il fedele Arechi II poteva svolgere questo compito per il bene della “nazione” longobarda e solo le buone qualità di Gualtari potevano influenzare positivamente l’imperatore d’Oriente Costantino V – accanito iconoclasta e sovrano di dubbia fama, stando al suo curioso soprannome: “copronimo” (da κόπρος “sterco”) – e permettere il buon esito della missione, testimoniato dal dono delle reliquie di Sant’Eliano. Nel racconto agiografico si legge che fu lo stesso Sant’Eliano ad apparire in sogno a Gualtari per riferirgli che l’imperatore bizantino, soddisfatto per il buon accordo politico, lo avrebbe ricompensato con un dono a sua scelta, e per questo il santo lo esorta a chiedere le sue spoglie per portarle a Benevento e lo invita a collocarle in una chiesa costruita da lui.

L’arrivo di Gualtari in città con i resti sacri del santo venne accolto da una folla numerosa che, “con ceri e lampade e con diversi generi di incensi (o profumi), scoppiò in pianto, per alcuni stadi di cammino, e così, con inni e con canti introdotto il veneratissimo corpo (di Sant’Eliano), onorevolmente fu collocato nella basilica che (Gualtari) aveva costruito prima di partire” e che dedicò al santo martire. Di questa chiesa si è persa qualunque traccia, si sa solo che è esistita fino al XII secolo costituendo un luogo di pellegrinaggio e di miracolose guarigioni. Con la sua scomparsa si è persa la memoria anche del culto di Sant’Eliano, mentre le sue reliquie sembra siano state rintracciate fino al 1763 nella chiesa di San Vittorino.

La missione di Gualtari, al di là della descrizione mistica che ne fa l’agiografia, potrebbe aver avuto anche dei risvolti di natura politica, lasciando intravedere un tentativo da parte di Arechi di tessere legami diplomatici con la lontana corte di Bisanzio, cosa che del resto riuscì a fare anni dopo quando firmò un trattato di pace con l’imperatrice Irene. Anche se nel 763 non vi erano ancora le minacce di una guerra contro i franchi, ad ogni modo non è da escludere che Gualtari, oltre a muoversi per “fede” fosse spinto anche da una missione di natura diplomatica, al fine di tessere rapporti distensivi con i bizantini i quali, di fatto, confinavano con il Ducato di Benevento (sia la zona di Otranto che la punta della Calabria rimasero sempre possedimenti bizantini, per non citare Napoli, ufficialmente bizantina ma autonoma da tempo). La distensione con Bisanzio rispecchia del resto la politica di distensione portata avanti da Desiderio, il quale mirava a rinsaldare le alleanze dei longobardi con tutti gli stati confinanti al fine di isolare il Papato per poter poi realizzare il tanto sognato Regno longobardo su tutta l’Italia.

In seguito all’evidente fallimento della missione diplomatica a Bisanzio, due anni dopo, nel 765, Arechi II mosse guerra a Napoli per poter controllare tutti territori della Liburia, la regione corrispondente grossomodo all’attuale Terra di Lavoro, zona pianeggiante e fertile, ricca di coltivazioni, dalla quale ricavare introiti per le casse ducali. La battaglia per la Liburia vide i beneventani trionfare sui napoletani e forte di questa vittoria Arechi II costrinse i napoletani a subire un trattato di pace costoso e pesante, consistente nel pagamento di un tributo annuo garantito sulla testa del piccolo Cesario, figlio del duca di Napoli Stefano, che venne inviato come ostaggio a Benevento. Negli anni seguenti, senza l’uso delle armi ma con altrettanta ostinazione, Arechi resistette alle pressioni dell’altro vicino, la Sede apostolica, disobbedendo in più occasioni alle richieste papali di restituire i possedimenti di S.Pietro detenuti dal territorio beneventano, e non arretrò dal suo netto rifiuto anche quando era il re Desiderio a imporglielo.

Un’altra importante traslazione voluta da Arechi II fu quella delle Reliquie di San Mercurio, che viene descritta in un testo agiografico contenuto anch’esso nelle Memorie del Borgia. Tutto ha inizio con la missione dell’imperatore bizantino Costante II che nel 663, come abbiamo visto abbondantemente, invase il Ducato di Benevento. Giunto a quindici miglia romane di distanza dalla città, l’imperatore si stanza presso Eclanum, situata sul tracciato più vecchio della Via Appia e che era ancora in uso nonostante la “deviazione” della Via Traiana che da Benevento si dirigeva invece verso Forum Novii, corrispondente alla contrada Ignazia sita nel territorio comunale dell’attuale Paduli. A quel tempo Eclanum ancora non era stata abbandonata e doveva essere abbastanza grande, dotata di terme e di un battistero, ancora ben visibili nel suo sito archeologico: era quindi l’ideale per una lunga sosta connessa all’assedio di Benevento. A quel tempo, data la sua distanza dalla capitale, Eclanum era nominata proprio Quintodecimo, a sancire ancora una volta l’importanza della città di Benevento per i territori circostanti. Ad Eclanum, ovvero a Quintodecimo, l’imperatore bizantino, probabilmente a causa della fretta con la quale è costretto a smontare l’accampamento e a fuggire a Napoli, abbandona le Reliquie di San Mercurio, che aveva portato con sé per garantirsi il favore divino e sconfiggere tutti i suoi nemici. Tali reliquie vennero riportate a Benevento da Arechi II con una solenne processione, nella quale egli ricopriva il ruolo principale, dando dimostrazione di fede cristiana e guadagnandosi la benevolenza di tutto il popolo, ed in particolare del clero.

Oltre all’attivismo religioso, Arechi II avviò anche una serie di sistemazioni urbanistiche su larga scala: allargò la città di Benevento con la costruzione di nuove mura e rinsaldare la mura e il castello di Salerno, che divenne una sorta di “seconda capitale” del Ducato. Approfittando del momento di stabilità politica realizzata dalla politica matrimoniale di Desiderio e godendo della vittoriosa guerra contro Napoli per il possesso dei territori agricoli della Liburia, Arechi II si trovò in una situazione davvero invidiabile, non a caso Paolo Diacono nella sua Historia Langobardorum, giudica la città di Benevento come “ricchissima”: con Santa Sofia divenuta santuario e quindi meta di pellegrini, con la Liburia che garantiva ingenti introiti, con Napoli costretta a pagare un tributo annuo, con Salerno che era diventata una seconda capitale e soprattutto un porto commerciale di primaria importanza, con una zecca che coniava (unica in Italia) il solido aureo, con la situazione di pacificazione nazionale realizzata dalla politica diplomatica di Desiderio che garantiva prosperità economica e ricchezza di scambi commerciali, che la città riusciva a intercettare essendo situata sulle principali vie di collegamento del mediterraneo (la Via Appia, la Via Traiana, la Via Latina), il Ducato di Benevento poteva godere di un assoluto benessere, che veniva registrato da Paolo Diacono da altre fonti del periodo, che poi confluiranno nei testi dell’Anonimo Salernitano e di Erchemperto.

Grazie a questa notevole ricchezza che si accumulava nelle casse del Ducato, Arechi II destinò ingenti risorse all’edificazione urbanistica e alle missioni di recupero delle reliquie, per questo la storiografia successiva ha sempre definito i tempi di Arechi II come un periodo di pace e prosperità garantito dalla magnificenza del Duca, e non è un caso che la sua figura venga sempre presentata come il più fulgido esempio di buon sovrano dagli scrittori successivi, soprattutto perchè viene contrapposta alle figure dei principi successivi, descritti spesso con tratti ampiamente negativi.

Erchemperto lo presenta come “cristianissimo, illustrissimo e fortissimo in guerra”, mentre il monaco del Cronicon Salernitano lo definisce “uomo mite e coraggioso, molto colto nelle discipline liberali” e “spesso distribuiva elemosina ai poveri”.

L’accurata politica di Desiderio era riuscita a porre Pavia al centro di una complessa rete di potere, ma questa rete poggiare le proprie basi sull’antagonismo tra Carlo e Carlomanno. Quando nel 771 Carlomanno morì, la situazione ebbe un brusco rovescio.

A rompere la rete di Desiderio fu proprio lo stesso Carlo, che non solo ripudiò la moglie, ma si impossessa dei territori del fratello disconoscendo i diritti legittimi dei suoi stessi nipoti. La risposta del re dei Longobardi fu di accogliere in Pavia la vedova e i figli di Carlomanno. Gli anni immediatamente successivi furono scanditi da un inasprirsi della pressione Longobarda su Roma, a farne le spese fu l’allora papa Adriano I9,molto probabilmente l’obiettivo di Desiderio era quello di costringere il papa ungere i figli di Carlomanno, così da avere un arma politica sullo scacchiere Franco. Adriano incominciò a pressare Carlo per un intervento contro i Longobardi, ma il re franco dovette prima dedicarsi alla guerra contro i Sassoni, e solo nella primavera del 773 l’esercito Franco passò le Alpi. Stavolta non ci fu una semplice vittoria militare con una successiva proposta di pace, nel giro di un anno l’intero regno Longobardo cadde nelle mani di Carlo, Pavia cadde nel 774. Desiderio e la sua famiglia furono fatti prigionieri e deportati nel regno dei Franchi, mentre Adelchi figlio del re riparò a Bisanzio10.

Per la terza volta in tre anni l’esercito Longobardo crollò di fronte le forze dei Franchi. Sarebbe superficiale apostrofare la superiorità militare dei Franchi senza fare un analisi corretta dei due regni, che rappresentavano senza dubbio le strutture politiche più evolute dell’Occidente altomedievale. Possiamo addirittura ritenere che la sofisticazione dell’apparato statale Longobardo fosse più articolata di quello dei Franchi11. Entrambi i regni basavano il nucleo della propria forza militare nella cavalleria pesantemente armata, e anche in questo senso i Longobardi non era certo da meno dei loro avversari. Questa tradizione della cavalleria pesante non poteva essere troppo antica per i Franchi, mentre lo poteva essere per i Longobardi e il loro passato orientale, ben influenzato dalle popolazioni della steppa. Anche il racconto della caduta di Pavia e delle schiere dei Franchi rivestiti di ferro che terrorizzavano gli abitanti è pura costruzione mitografica.

Le ragioni della disparità di forza bellica, vanno cercate nella differenza patrimoniale delle due aristocrazie, quella Franca e quella Longobarda. Quest’ultima appare molto più povera di terra e di conseguenza con meno seguito sociale di medi e piccoli possessori, rispetto all considerevole seguito armato del corrispettivo Franco. Non ci dimentichiamo inoltre che l’esercito Longobardo poggiava la propria spina dorsale proprio sui piccoli e medi proprietari fondiari che formavano il gruppo degli exercitales, ed erano la base numerica più nutrita dell’esercito regio12.

Ci troviamo di fronte ad un gruppo molto diverso rispetto ai loro omologhi Franchi,abituati ad uno stato di mobilitazione e di guerra perenne, sia al confine che i Franchi definivano Barbaricum, il mondo oltre il Reno abitato da pericolose tribù pagane Sassoni, Frisoni, ma anche per la presenza ai margini o dentro il loro stesso regno di popolazioni assai turbolente come i Bretoni, Aquitani, Arabo-musulmani, Alamanni, Bavari. Tutto ciò spiega abbondantemente la differenza “marziale” dell’aristocrazia Franca e la continua necessità di avere delle clientele guerriere13.

A riprova di ciò mi mostriamo due lettere di due aristocratici Longobardi, sulla via della guerra:

Nell’agosto del 755, Gaiprando dono alla chiesa di S. Frediano del suo paese, Griciano in provincia di Lucca, una casa con il massaro che vi risiedeva e con tutte le terre che facevano parte di quella proprietà, «perché sono chiamato all’esercito per andare in Francia» (in realta per andare incontro ai Franchi che premevano dalle Chiuse); la speranza era quella di essere ricompensato nell’aldilà per questo parbo monusculo, un «minuscolo dono» da cui il prete titolare della chiesa avrebbe potuto ricavare luminaria, ossia l’illuminazione per gli altari dei santi. Analogo e il comportamento del pisano Domnolino, che nel 769, probabilmente in occasione di una delle campagne di Desiderio contro Roma, «poiché siamo incerti del giudizio di Dio […] e mi è stato ordinato di andare all’esercito», concede ad Austreconda, sua sorella (che lui chiama «dulcissima sorore»), di disporre di una certa quantità di beni, anche se sotto il controllo del prete Lutfredo: infatti Austreconda aveva preso l’abito monastico in occasione della partenza del fratello. Sono brandelli di esistenze che, sia pure imprigionate nel rigido formulario dei documenti, affiorano e si dimostrano in vario modo sconvolte dalla convocazione all’esercito. Non sembra di essere di fronte a dei professionisti della guerra. E impossibile naturalmente sapere quanto Gaiprando e Domnolino fossero fino in fondo tipici del loro ceto; e tuttavia la loro testimonianza è significativa.

Oltre alla differenza militare, dobbiamo sottolineare una fortissima divisione politica interna che amaramente portò, molto più della posizione militare, il regno di Pavia alla fine. Desiderio era arrivato al potere grazie alle divisioni del ceto dominante Longobardo, in particolare del blocco aristocratico Friulano, da cui discendevano i suoi due predecessori, Ratchis e Astolfo. Egli stesso non apparteneva all’aristocrazia ducale, di origine Bresciana aveva prestato servizio sotto Astolfo con la carica di Comes Stabuli, letteralmente capo delle scuderie, ricevendone in cambio ampie concessioni terriere14. L’ultimo re Longobardo era una sorta di uomo nuovo e anche la sua accorta strategia politica ne dimostrava la lontananza dalla troppo spesso belligerante aristocrazia ducale. E’ tristemente evidente come la divisione politica e l’insofferenza aristocratica fossero state le vere cause della rovina della Langobardia Maior.

La deposizione di Desiderio, il suo esilio in Francia e la fuga di Adelchi, consentirono ad Arechi II di diventare l’estremo baluardo della Gens Langobardorum. Diversamente dai duchi del Friuli, di Spoleto e delle città longobarde della pentapoli, Arechi non si prestò ad un umiliante atto di sottomissione a Carlo Magno ma, al contrario, nello stesso 774 si fece consacrare principe dai suoi vescovi e ne assunse col tempo tutti gli attributi. Cintosi il capo del diadema regale, legiferare, nominò abati e vescovi, concesse privilegi, impose il servizio militare, batté moneta con la sua effige ed amministrò lo Stato dal sacrum palatium attraverso i suoi funzionari. Mantenne salda la propria autorità riuscendo a non vivere all’ombra di Carlo, il quale, nonostante le continue sollecitazioni del papa Adriano I ad intervenire in Italia meridionale per frenare l’impudenza del principe beneventano, pare che ne avesse profondo rispetto. Del resto, solo diversi anni dopo, ovvero nel 787, il re franco decise di varcare i confini d’oltralpe e marciare verso il sud della penisola per risolvere le secolari controversie fra il ducato beneventano e la Sede apostolica, e per stabilizzare una situazione politica minacciata dal riaccendersi della conflittualità tra i Beneventani e i Napoletani in seguito all’invasione e alla devastazione del territorio di Amalfi da parte di Arechi avvenuta qualche anno prima. L’esercito napoletano, giunto in soccorso degli amalfitani, questa volta riuscì a sconfiggere le schiere longobarde costringendole alla fuga, ma le ostilità terminarono solo con la temuta calata dei Franchi. Pressato dall’arrivo di Carlo Magno a Roma, Arechi sottoscrisse un trattato di pace coi Napoletani con il quale scioglieva l’antica disputa sulla Liburia, l’attuale Terra di Lavoro, disciplinando l’amministrazione e, in segno di amicizia e di buona fede, donò alla basilica di S. Gennaro alcuni preziosi insieme alla terra di Pianura presso Pozzuoli. Inoltre, per contenere l’invasione franca e guadagnare tempo, Arechi inviò a Roma suo figlio Romualdo per omaggiare Carlo con dei doni e per garantirgli la sua totale sottomissione se avesse risparmiato il suolo beneventano. Nel frattempo, rafforzò le difese militari e si preparò alla battaglia. La missione diplomatica non andò a buon fine poiché Carlo, spinto con molta probabilità dalle pressioni del papa e dalla necessità di ribadire la propria egemonia con la forza, tenne come ostaggio Romualdo e marciò con l’esercito verso il principato, mentre Arechi trovava rifugio nella roccaforte di Salerno. Fermatosi a Capua per sferrare l’attacco, il re franco venne raggiunto da un’altra richiesta di pace da parte di Arechi, stavolta per bocca di un’ambasceria guidata dal vescovo di Benevento, Davide. Carlo decise allora di sospendere la missione militare e di concedergli la pace, imponendogli però condizioni molto dure come la corresponsione di un tributo annuo, la cessione alla Chiesa delle terre di S. Pietro del ducato di Benevento e di Salerno e, soprattutto, obbligandolo a prestare giuramento di fedeltà e di obbedienza alla sua corona. Come garanzia del rispetto del trattato, Arechi fu costretto a consegnare dodici ostaggi tra i quali i figli Grimoaldo e Adalgisa, ottenendo in cambio la liberazione del figlio maggiore Romualdo. Dopo aver ristabilito l’ordine, Carlo nell’aprile del 787 ritornò in Francia, mentre Arechi morì il 27 agosto dello stesso anno a Salerno dopo aver sofferto anche la perdita del primogenito Romualdo e dopo aver siglato un trattato di pace con l’imperatrice bizantina Irene.

Per ricostruire gli eventi ci serviremo della Storia dei Longobardi Beneventani, scritta nel IX secolo dal monaco Erchemperto, il quale racconta:

Essendo quindi l’Italia stata conquistata e soggiogata da Carlo, questi vi pose come re suo figlio Pipino e insieme a quest’ultimo e a un innumerevole esercito si recò spesso a Benevento per conquistarla (…) Venuto a sapere che Carlo e Pipino stavano per attaccarlo, Arechi concesse la pace ai napoletani e distribuì i suoi redditi in Liburia e a Cimiterio agli abitanti di quelle zone, perchè era opportuno essere uniti e perchè temeva che i Franchi potessero entrare a Benevento grazie ai loro inganni”

La concessione della Pace ai napoletani, ovvero la fine delle ostilità con il vicino Ducato di Napoli, si rendeva necessaria per poter organizzare una resistenza armata all’invasione franca. Tale accordo di pace venne ratificato intorno al 780 e consiste in due trattati che definivano regole e ruoli per l’utilizzo della fertile Liburia: in tali accordi si segnala la presenza di alcuni fondo che vengono definiti “coloro che si dividono”, nel senso che devono pagare i tributi età a Napoli e metà a Benevento. Evidentemente, doveva esserci una zona contesa, oggetto del conflitto armato, che alla fine viene appunto “condivisa” da entrambe le città di fronte alla seria minaccia franca. In realtà la spedizione armata dei franchi avverrà solo nel 787 (o 786), dopo le continue insistenze del Papa, per cui la fine delle ostilità con i napoletani è da leggersi come una mossa politica di lunga visione e non come una necessità impellente, come invece viene descritta da Erchemperto. Arechi non aveva saputo che Pipino e Carlo stavano marciando contro di lui, lo aveva semplicemente previsto.

Erchemperto continua: “Giunto quindi l’esercito gallico (nel 787) a Benevento (in realtà i franchi occuparono Capua), Arechi all’inizio resistette con fermezza con tutte le forze che aveva, ma alla fine, poiché i Franchi combatterono molto duramente e, come le locuste, distruggevano ogni cosa fino alle radici e poiché aveva più a cuore il benessere dei cittadini di Benevento che all’affetto dei suoi figli, consegnò in pegno al predetto Cesare (ovvero Carlo Magno) i suoi figli gemelli, Grimoaldo e Adelgisa, insieme a tutto il suo tesoro. Ottenuta la pace con Arechi tramite la promessa di un tributo, dopo innumerevoli preghiere, Carlo consegnò Adelgisa a suo padre e portò indietro con sé Grimoaldo ad Aquisgrana”.

Il racconto di Erchemperto è decisamente sintetico ed omette cose di vitale importanza, come ad esempio il fatto che Arechi non si presentò di persona a parlamentare con Carlo, ma inviò una delegazione. Per questo motivo confronteremo il racconto di Erchemperto con quello del Cronicon Salernitano, che si dilunga anche sulle cause del conflitto tra Carlo e Arechi, che, secondo il monaco che lo redasse nel X secolo, non sono da imputarsi al Papa:

Essendosi scontrati tra loro i longobardi per una infame gelosia, alcuni maggiorenti mandarono di nascosto una ambasceria a Carlo, re dei Franchi, per indurlo a venire con un forte esercito a sottomettere al proprio dominio il regno d’Italia, assicurando che avrebbero consegnato prigioniero, in suo potere, lo stesso sovrano Desiderio e gli avrebbero dato in possesso anche molte ricchezze e vesti tessute d’oro e di argento. Saputo ciò, Carlo si affrettò verso l’Italia con una grande moltitudine di Franchi, Alemanni, Burgundi e Sassoni. E, appena Carlo giunse in Italia, il re Desiderio gli fu consegnato a tradimento da quelli che, come ho detto, facevano finta di essere suoi fedeli. (…) Carlo così fu fatto Re di tutta l’Italia. Solo Arechi, duca di Benevento, non tenendo conto dei suoi ordini, cinse il capo di una corona preziosa. Quando re Carlo lo seppe, ne fu molto irritato e gridò con giuramento: <Non voglio vivere, se non pianterò nel petto di Arechi questo scettro che stringo in mano>”.

Poi il cronicon rielabora una leggenda in base alla quale Paolo Diacono venne fatto prigioniero dai Franchi e riuscì a fuggire, per inventarsi l’arrivo dello scrittore a Benevento, al fine di avvertire il duca Arechi, nominatosi principe dei longobardi, che il re Carlo stava preparando un grosso esercito per invadere il suo territorio.

Sapute queste cose, Arechi, data ogni sicurezza a Benevento e alle sue figlie, si trasferì a Salerno, che è una città munitissima e illustre e abbonda molto di ricchezze e di cibarie e il principe mirabilmente la ingrandì e ne rafforzò le difese. Carlo, partito con un forte esercito (….) con grande furore cercò di invadere le città soggette ad Arechi. Quando lo seppe, Arechi ne fu molto intimorito: elevò a grande altezza le mura della suddetta città e mandò suoi messaggeri nei territori di Benevento, perchè fossero venuti da lui i più ragguardevoli vescovi. Quando questi vescovi giunsero, il principe ordinò che fossero introdotti di nascosti nel palazzo e, andando loro incontro col capo chino, come era sua abitudine, chiese la loro benedizione e ricevutola, il principe così prese a dire: <Dunque, beatissimi padri, troviamo un espediente sul come possiamo cacciare dai nostri territori il nefasto Carlo>. E presero la decisione di ingannare la sua ferocissima ira. Ciascun vescovo indossò il cilicio come cavalcatura salirono su umili asinelli e così si recarono da lui: viaggiando tutti insieme non dissero altro che preghiere. Avvicinandosi questi vescovi a Capua, velocemente attraversarono il Volturno. Un uomo chiese loro: <Benvenuti miei signori, dove andate?> e quelli risposero: <Desideriamo raggiungere il grande re Carlo> . E l’altro soggiunse: < Badate che egli e il suo esercito hanno raggiunto la località chiamata Garigliano>. Decisero di andarci, malgrado che il percorso fosse lungo. E in questa direzione, a circa dodici miglia, lo trovarono col suo esercito. Non lontano dai suoi accampamenti scesero dagli asini e ordinarono che ciascun chierico andasse avanti con uno stendardo. Il re scorse queste cose da lontano, ne restò sorpreso e quando gli fu riferito che erano vescovi beneventani, disse: <Come mai i vescovi beneventani vengono da me, quando proprio essi hanno posto la corona sul capo del loro principe>. Mentre così parlava giunsero i vescovi che si prostrarono con la faccia a terra. Il Re, che era pio, ordinò loro due o tre volte di alzarsi e quando con timore si rialzarono, il re parlò loro: <Vedo pastori senza le pecore>. Gli altri, presero coraggio e risposero: <E’ arrivato un lupo e ha disperso le pecore>. Il re, come per rispondere, chiese: <E chi è il Lupo?>. E gli altri senza alcuna paura dissero: <Proprio tu!>. Il pio re, vedendo la loro audacia, rispose loro con calma: <Benchè peccatore, sono battezzato e dal nome di Cristo sono chiamato cristiano, faccio spesso il segno della croce sul mio corpo e per quale ragione mi chiamate lupo?>. Uno dei suddetti vescovi, di nome Davide, che era proprio della città di Benevento, con scaltrezza rispose: <Non ti sdegnare mio imperatore se parlo. Non facciamo ingiuria alla tua dignità se ti paragoniamo a una bestia, perchè come il lupo afferra la preda e la strazia, così il nostro signore, se verrà nel Sannio, proprio come un lupo, sbranerà i corpi dei cristiani.> E prese a parlare come se Dio in persona parlasse: <Io dal nulla ti ho fatto imperatore. Io ti ho consegnato l’esercito del tuo nemico. Io ti ho ceduto le schiere del suo esercito che egli aveva approntato contro di te. Io do ridotto il tuo avversario in tuo potere. Io ti ho fatto trionfare senza sforzo. E tu vuoi trionfare sui miei fedeli, che una volta conquistati con il mio sangue?>. L’imperatore, vedendosi vinto da un astuto ragionamento e non trovando via d’uscita, cercò di porre avanti un pretesto: <Come posso interrompere quanto ho iniziato, se con giuramento ho detto che non voglio vivere senza aver trafitto il petto di Arechi con lo scettro che ho in mano?>. Allora il vescovo di Salerno, di nome Radoperto, rispose: <Ascoltami, benignissimo imperatore: anche il Tetrarca Erode, che una volta comandava il popolo dei giudei, mentre ubriaco era a tavola con i suoi cortigiani, si compiacque della sua figliastra che era entrata ballando. E quel giorno anche Erode con giuramento promise alla fanciulla che le avrebbe dato qualunque cosa gli avesse chiesto. Non sarebbe stato meglio rinnegare il giuramento anziché tagliare la testa a Giovanni?>. Al che l’imperatore disse: <Molto meglio>. E quel vescovo continuò:<E se è meglio, perchè lo vuoi imitare?>. L’imperatore allora, con animo sereno, disse: <Dimmi dunque al più presto e con chiarezza cosa debbo fare> E allora tutti i vescovi risposero: <Faremo in modo che tu resti fedeli al giuramento senza alcun danno e porteremo Arechi alla tua presenza, perchè tu faccia su di lui quanto hai giurato a Dio> I vescovi non avevano ancora terminato queste parole che il re, contento e in tutta fretta disse: <Fate come avete detto, perchè, mentre queste parole uscivano dalla vostra bocca, sono stato tanto colmo di gioia da sentirmi ringiovanito>”

Il re franco però non poteva sospettare che si trattasse di una vera e propria beffa orchestrata dai vescovi beneventani. Il giorno dopo, infatti, i vescovi lo accompagnarono all’interno di una Chiesa ddedicata a Santo Stefano protomartire, dove Carlo Magno pregò e poi chiese che gli fosse consegnato Arechi II. A quel punto i vescovi lo accompagnarono in un angolo della chiesa dove, in un affresco era ritratto il principe beneventano in tutta la sua magnificenza. Carlo non la prese molto bene, infatti, come racconta il Cronicon Salernitano:

Il re allora con grande sdegno voltò la faccia e iniziò ad inveire con la voce: <Non vi siete comportati verso di me fino ad ora con inganno e ironia? Ora non ve lo permetterò più: fate quello che avete promesso, altrimenti vi manderò prigionieri in Gallia>. Quelli, atterriti, ma fidando nel Signore, risposero: <Non abbiamo fatto altro che quanto avevamo promesso alla vostra autorità. Non abbiamo paura delle minacce. Fa quello che vuoi fare: non diciamo in Gallia, se vuoi, mandaci in Africa>. Il re rispose loro: <Prometteste di mostrarmi un po’ di argilla o un uomo? Il corpo di un uomo o una varietà di colori?>. A ciò risposero: <Non ti adirare signore imperatore>. E la stessa cosa ripetevano anche quanti erano della sua corte e reggevano una preziosa corona sul capo”.

A questo punto l’anonimo autore del Cronicon si abbandona ad una considerazione di natura politica che fa trapelare la considerazione di sé stesso come di un longobardo, evidenziando un attaccamento alla propria identità culturale che si rafforzò proprio in questo periodo storico di netta contrapposizione tra ultimi longobardi e i tentativi di Carlo (e in futuro di suo figlio) di “franchizzarli”. Questo attaccamento alla propria identità, coinvolse anche i centri monastici e si protasse al loro interno per diversi secoli, come si evidenzia dalll’incipit della copia dell’Origo Gentis Langobardorum conservata a Cava dei Tirreni ma prodotta a Montecassino agli inizi dell’XI secolo, in cui si legge “diamo inizio all’Origine delle Nostre Genti Longobarde”, dove il “nostre” indica una appartenenza non solo del redattore ma dell’intera istituzione monastica entro la quale esso venne prodotto e conservato.

In ogni modo non può essere chiamato imperatore se non chi è capo dell’impero romano, cioè contastinopolitano. I re dei Franchi si sono appropriati ora di tale nome, ma giammai sono stati chiamati così anticamente. Ma torniamo ai fatti della nostra storia, al punto dove l’avevamo interrotta. I vescovi risposero: <Arechi non è forse argilla? Non è detto nella Genesi che Dio creò l’uomo dal fango della terra? Perciò come abbiamo detto, se vuoi, fai quanto hai promesso a Dio nell’immagine di lui, cioè in questo dipinto, perchè comunque, la sua vera immagine non la vedrai se non nel giorno del giudizio universale>. Vedendosi contrariato da tutti, con grande sdegno si scagliò contro quell’immagine, piantò lo scettro che aveva in mano nel petto dell’effige di Arechi e fece strappare la corona dipinta sul capo, aggiungendo: <Così avvenga a chi si colloca in un posto che non gli compete> Allora i vescovi, prostratisi con la faccia a terra, l’ossequiarono e lo invitarono a firmare subito la pace. E il benignissimo re, esaudendo la richiesta di tanti padri, fissò una stabile pace e sancì per iscritto un patto d’alleanza tra Beneventani e Franchi e il Re dei Franchi fece scegliere ostaggi beneventani, tra i quali Grimoaldo, figlio di Arechi II”.

La reggenza di Arechi II ha rappresentato per il ducato un lungo trentennio di magnificenza artistica. Da profondo conoscitore del mondo classico, letterato e poeta, Arechi riuscì a trasformare la città di Benevento in un centro culturale e politico di primaria importanza nell’Europa dell’alto medioevo. Alla sua corte accolse artisti e letterati, primo fra tutti lo storico Paolo Diacono che fu precettore della famiglia ducale cedendo poi il ruolo al giovane vescovo Davide, anch’egli fine cultore delle bellezze dell’intelletto. Si fece promotore dell’istituzione di una schola palatina per istruire ed educare i suoi figli e quelli degli altri nobili, favorì e incitò lo scambio di manoscritti tra le officine scrittorie di Benevento e le abbazie di Montecassino e S. Vincenzo al Volturno creando, con molta probabilità, le premesse per la canonizzazione della scrittura beneventana, sorta alla fine dell’VIII sec. e diffusasi fino al IX sec. nell’Italia meridionale e nella Dalmazia fino al XIII sec.

Chiesa di Santa Sofia

Arricchì la città con una perla dell’arte e dell’architettura medievale, la chiesa di S. Sofia, fondata da Gisulfo II e da lui ultimata nel 760, espressione della sua profonda religiosità e simbolo del suo potere politico-economico. Intitolata alla Santa Sapienza come la basilica di Costantinopoli, divenne il santuario nazionale del ducato ed egli ne amplifica il valore trasferendo le reliquie di numerosi santi – soldati, confessori e martiri – in segno di pia devozione ma, soprattutto, per conferire sacralità al proprio dominio. Accanto alla chiesa, inoltre, istituì un monastero benedettino femminile che affidò alla sorella badessa Gariberga e che divenne uno dei centri economici più floridi del ducato. La sua prolifica attività edilizia non fu solo di taglio religioso e si concentrò su costruzioni militari e fortificazioni, in primis l’inespugnabile castello di Salerno, e sullo sviluppo urbanistico di Benevento, assecondando e promuovendone la ricca economia artigianale e commerciale. Ampliando la cinta muraria in direzione dell’attuale via Torre della Catena, accor pò al nucleo abitativo una parte della città romana e creò un nuovo quartiere, la Civitas Nova, trasformato in vero e proprio distretto manifatturiero.

Arechi senza dubbio ha precorso i tempi, incarnando la figura di principe illuminato ante litteram, attento al progresso culturale della propria terra quanto a quello economico; prudente in politica estera e combattivo nel momento in cui vi era in gioco l’espansione del principato e la difesa della sua integrità; magnanimo rispetto ai suoi predecessori (Rotari, Grimoaldo, Liutprando, Rachis e Astolfo) nel legiferare con i suoi 17 Capitula, norme con un più elevato senso della giustizia, da contestualizzare comunque nella dura lex medievale; sincero devoto e, al tempo stesso, capace di utilizzare politicamente la religiosità. Con la sua saggezza il ducato e la stessa città di Benevento hanno conosciuto una grandezza e una centralità mai più vissuta.

1 Per la politica matrimoniale di Desiderio, J. Nelson, Making a Difference in Eight-Century Politics: The Daughters of Desiderius, in After Rome’s Fall.

2 Carlommano, Soissons, 28 giugno 751 – Salmontiaco, 4 dicembre 771 e Carlo ,2 Aprile 742 – 28 Gennaio 814 Acquisgrana . Entrambi furono eredi di Pipino morto nel Saint Denis, 24 settembre 768

3 Codex Carolinus, 45

4 Annales Mosellani, in MGH, Scriptores, 16; Eginardo, Vita Karoli, c. 18

6 Paolo I ,Roma 700, Roma 768

7 S. Gasparri , Italia Longobarda , p. 111

8 Liber Pontificalis, I, pp. 461-462

9 Adriano I Roma, 700 – Roma, 25 dicembre 795

10 Liber Pontificalis, I, pp. 495 e 499; Annales regni Francorum, anno 774

11 . Gasparri , Italia Longobarda , p. 114

12Wickham, Aristocratic Power, cit. sopra, cap. II, nota 26

13 B.S. Bachrach, Early Carolingian Warfare. Prelude to Empire, Philadelphia 2001

14Liber Pontificalis, I, pp. 454-455