AIONE, IL TERZO DUCA DI BENEVENTO

di Alessio Fragnito e Vincenzo Antonio Grella

A questo re il duca di Benevento Arechi inviò il proprio figlio Aio: quando però questi, nel suo viaggio verso il Ticino, arrivò a Ravenna, la malizia dei Romani gli fece bere una pozione tale da farlo uscire di senno: e da allora non ebbe più piena e sana la ragione.”

Così Aio, detto anche Aione, fece la sua comparsa nell’opera di Paolo Diacono. Siamo nella prima metà del VII secolo e Rotari divenne re dei Longobardi e d’Italia nel 636: molto probabilmente Aio venne mandato dal padre a porgere omaggio al nuovo sovrano, ed è lui il “re” in questione di cui parla il Diacono.

Dobbiamo ammettere che su Aio sappiamo ben poco.

Sicuramente l’episodio della pozione fu alquanto emblematico. Non sappiamo se effettivamente Aio soffrisse già di problemi mentali, tuttavia il racconto lascia presupporre che fosse stato ideato proprio per dare una spiegazione all’instabilità mentale del futuro duca. Dobbiamo ricordare che Paolo Diacono scrisse la sua opera partendo da una ricerca sul campo di tutta la memoria orale conservata dal suo popolo. Storie come questa facevano parte di un patrimonio collettivo mitico che aveva il duplice scopo di conservare la memoria,e cementificare l’identità politico culturale della gens longobarda. In questa ottica la subdola azione dei Romani acquistò una lettura del tutto politica. I Bizantini erano i nemici per antonomasia del regno Longobardo, su di loro poteva tranquillamente ricadere qualsiasi macchia di infamia e di tradimento, oltre tutto essendo dei “vili” e non potendo ottenere ciò che volevano con la forza, facevano largo usò di intrighi,congiure e ovviamente di veleni. Naturalmente questa è un analisi che ci può aiutare a comprendere meglio le parole del Diacono, dato che non siamo in grado di verificarne la completa autenticità. D’altro canto sappiamo che in oriente non mancavano le conoscenze per la fabbricazione di pozioni e veleni in grado non solo di uccidere, ma anche di rendere folli e di sicuro all’impero Bizantino non mancavano i mezzi per ordire un simile piano. Eppure non ci sono prove tangibili che ci permettano di comprendere il gesto, sopratutto bisognerebbe conoscere l’effettiva motivazione per cui Aio si fermò a Ravenna, capitale dell’Esarcato Bizantino. Un ipotesi molto plausibile sarebbe un effettivo scambio diplomatico tra l’Esarcato e il Ducato di Benevento. L’autonomia beneventano fu ampiamente potenziata da Arechi I, che come abbiamo visto nel precedente saggio ampliò il territorio e la forza del ducato sancendo l’inizio della completa longobardizzazione di quei territori.

Proprio in virtù di questa autonomi è assolutamente plausibile che il ducato di Benevento agisse diplomaticamente in maniera del tutto autonoma e slegata dagli uffici di Pavia.

Questa ipotesi renderebbe ancora più misterioso l’episodio della pozione, anche perchè a parte il Diacono, non abbiamo nessunissima traccia di questo avvenimento, per cui possiamo solo convenire che si trattò di un espediente mitografico per giustificare l’effettiva instabilità mentale del futuro duca Aio I .

Dato che Paolo Diacono1 parla del viaggio di Aione verso Pavia nel capitolo in cui parla di Rotari, ne deduciamo che quello di Aione fosse appunto un viaggio “diplomatico” finalizzato a riconoscere Rotari come re di tutti i longobardi, compreso quelli del ducato meridionale e al tempo stesso ad ottenere il riconoscimento da parte del Re della prosecuzione dinastica sul trono ducale meridionale2. In pratica Arechi riconosceva Rotari come suo Re ma cercava al tempo stesso il riconoscimento di suo figlio come legittimo erede del trono ducale di Benevento. Ma questa missione diplomatica di Aione non si limitava a questo, egli infatti prima di raggiungere Pavia, soggiornò a Ravenna, la capitale dell’Esarcato bizantino3.

La missione di Aione si svolge nel 636, anno di elezione di Rotari, o al massimo l’anno successivo, per cui se crediamo al racconto di Paolo, ciò vuol dire che in questo periodo esiste un accordo di pace tra i bizantini e longobardi che era esteso anche ai longobardi beneventani. Tale accordo in sostanza altro non era se non la prosecuzione degli accordi di pace siglati con la mediazione di Gregorio Magno.

Continuando il racconto sulle coordinate di Paolo Diacono, sappiamo che Arechi ben conscio dell’inadeguatezza del proprio figlio, associò al governo in maniera informale Rodoaldo e Grimoaldo, i due esuli friulani e futuri duchi di cui vi parleremo nei prossimi saggi.

Il duca Arichis, che era ormai avanti negli anni, sentendo che si avvicinava la usa fine e sapendo che suo figlio Aione non era più sano di mente, raccomandò ai longobardi presenti i due giovani Rodoaldo e Grimoaldo, come se fossero stati suoi figli e disse loro che essi avrebbero governato meglio di Aione4”.

La figura di Aio, che portava il nome di uno dei due leggendari fratelli che guidarono i Winiles a vincere contro i Vandali e ad acquisire il nome di “popolo dalle lunghe barbe”, è segnata irrimediabilmente dalla descrizione iniziale che ne fa Paolo Diacono, il quale lo descrive appunto come “debole di mente”, giustificando in tal modo la scelta del padre di non affidare più a suo figlio la reggenza del ducato.

Morto Arechi, che aveva retto il ducato per cinquanta anni, fu eletto duca dei Sanniti suo figlio Aio; e Rodoaldo e Grimoaldo gli obbedirono in tutto come ad un fratello maggiore e signore5

In queste righe l’autonomia beneventana emerge prepotentemente. L’utilizzo del termine sanniti volle sottolineare una continuità politica con l’indipendenza del territorio anche e sopratutto in ottica anti-bizantina, mettendo sullo stesso piano il fervore dell’antico popolo italico con le aspirazioni di autonomia della gens longobarda di Benevento. Anche la modalità dell’innalzamento di Aio, avvenuta nel 640 circa, dimostra una volontà prettamente beneventana di continuazione dinastica. In questa descrizione degli eventi capiamo che il potere di nomina del Duca di Benevento spettava principalmente all’assemblea delle lance dei longobardi beneventani, per cui nemmeno il testamento di Arichis poteva togliere all’assemblea questo potere. Ma soprattutto capiamo che ormai il Ducato si è appunto strutturato come stato autonomo, dotato di una propria struttura politica e militare: se infatti alla morte di Zottone non si fa cenno a nessuna assemblea dei beneventani per cui il Re nomina Arechi, stavolta, invece, stando al racconto di Paolo Diacono, vediamo che la scelta del Duca è collettiva (“fu eletto Duca”) e viene presa senza dubbio da una assemblea di guerrieri longobardi che ormai costituivano l’ossatura del Ducato, ovvero che erano quei gastaldi o conti o forse anche sculdasci di centri più grandi, che amministravano i territori per conto della capitale e che erano quindi i rappresentanti del potere ducale, o meglio che erano la materializzazione di questo potere nei singoli territori.

Anche il rapporto con i sui tutori sembrava testimoniare una pacifica transizione ed accettazione dello stato di cose, per cui Aio aveva tutto il diritto a regnare, il popolo lo volle e accettò di buon grado la tutela dei fratelli acquisiti, purchè il regno di Pavia non interferisse negli affari interni del ducato.

Possiamo qui vedere come l’opera di Arechi I avesse dato delle solide per il futuro del ducato.

Il regno di Aio fu molto breve, durò appena un anno e cinque mesi, per essere poi stroncato da un evento imprevedibile. Nel 642 un armata di Slavi irruppe nella Puglia Longobarda , accampandosi nei pressi della città di Siponto.

Gli Slavi non erano un popolo nuovo per i Longobardi, anzi, combatterono sotto Belisario e Narsete la guerra gotica, fecero parte di contingenti al soldo dei Longobardi negli assedi del nord e in oltre erano spesso usati dagli Avari come truppe di contenimento contro gli stessi Bizantini.

Ora la storia del popolo degli Slavi è ancora al vaglio dei numerosi storici che ne stanno indagando le origini , le migrazioni e le trasformazioni. Noi sappiamo che all’epoca di Aio i gruppi di Slavi si erano stanziati in maniera stabile nella Dalmazia, Pannonia e Illiria, in queste ultime zone gli Slavi erano probabilmente assoggettati agli Avari. Le cronache parlano dei Venedi che premevano sul confine settentrionale dell’Impero Bizantino, questi si divisero poi in Sclaveni che occuparono la regione della riva destra del Dnepr e in Anti che si distribuirono lungo il corso medio del Dnepr e del Dnestr. Degli Anti si perdono le tracce, mentre degli Sclaveni sembrano aver subito ulteriori divisioni e da loro siano emersi i vari gruppi degli slavo croati,serbi e infine gli occupanti della Dalmazia6.

L’attacco a Siponto sembrò essere stato organizzato nei minimi particolari, dato che gli Slavi giunsero con una cospicua flotta e anche con una preparazione militare di tutto rispetto. Appena giunti essi posero un accampamento e scavarono delle fosse tutte intorno, camuffandole per renderle invisibili al nemico. Questa tattica ben descritta dal Diacono è propria sia degli eserciti tardo antichi sia patrimonio di guerriglia di numerosi popoli. Procopio ricorda molto bene che la principale tattica degli Slavi era proprio la guerriglia e gli agguati, e una descrizione molto dettagliata delle popolazioni slave, soprattutto dal punto di vista militare viene fatta dall’imperatore Maurizio nel suo Strategikon7:

I popoli degli Slavi (Sclaveni) e degli Anti vivono nello stesso modo hanno le stesse usanze e si considerano entrambi liberi, rifiutano nel modo più assoluto di essere ridotti in schiavitù o governati, soprattutto nelle loro terra. Sono prolifici e pazienti, sopportano senza difficoltà il caldo, il freddo, la pioggia e la mancanza di indumenti e di beni di prima necessità. Sono benevoli e ospitali con gli stranieri e li proteggono accompagnandoli da un luogo all’altro, dove desiderano; se lo straniero subisce un torto a causa della negligenza di chi lo ospita, quello che glielo aveva affidato muove guerra a quest’ultimo, considerano la vendetta a favore dello straniero come un dovere religioso. Non tengono i loro prigionieri in schiavitù a tempo indeterminato, come fanno gli altri, ma stabiliscono per loro un periodo di tempo definitivo, e poi lasciano a loro la scelta se tornare alle proprie case con una piccola ricompensa oppure rimanere con loro come uomini liberi e amici. Posseggono una grande quantità di ogni tipo di bestiame e coltivano, raccogliendo in mucchi sopratutto miglio comune e miglio italico. Le loro donne sono virtuose ben al di là della natura umana, al punto che molte, quando il loro marito muore, vivono questa situazione come la propria morte e liberamente si tolgono la vita, non volendo continuare a vivere come vedove. Vivono presso foreste, fiumi, laghi e paludi inaccessibili, e si creano parecchie vie d’uscita dai loro insediamenti, in funzione dei pericoli ce devono affrontare. Accumulano i loro beni più preziosi in luoghi segreti, e non tengono in vista nulla che sia superfluo. Amano comportarsi come briganti e guadagnarsi da vivere attaccando i loro nemici nei boschi e in luoghi stretti e scoscesi. Fanno un uso efficace delle imboscate, degli attacchi a sorpresa e delle astuzie, sia di giorno che di notte, applicando molte tattiche diverse. La loro esperienza nell’attraversamento dei fiumi supera quella di chiunque altro, e sono estremamente abili nel restare a lungo in acqua, al punto che spesso, quando si trovano nelle loro terre e vengono colti da un attacco a sorpresa, si immergono nel fondo di un corso d’acqua tenendo in bocca delle lunghe canne vuote al loro interno appositamente preparate, mantenendole sopra la superficie dell’acqua, rimanendo sdraiati con la schiena sul fondo, respirano attraverso di esse e resistono per diverse ore, senza che nessuno sospetti dove si trovino. Una persona priva di esperienza che osserva le canne da lontano viene indotto a pensare che crescano nell’acqua. Chi invece ha avuto esperienza con questo trucco, riconoscendo le canne da modo i cui sono tagliate e dalla posizione, gliele può spingere in bocca, oppure strapparle via, il che li fa uscire fuori, dato che senza di esse non possono rimanere a lungo sott’acqua.

Sono armati con corti giavellotti, due per ciascuno, a alcuni di loro hanno anche degli scudi, validi ma difficili da maneggiare. Usano inoltre archi di legno e piccole frecce con un veleno spalmato sulle punte, talmente efficace che se chi viene colpito non ha bevuto prima un antidoto, o non ha fatto uso di altri rimedi conosciuti da un medico esperto, deve immediatamente tagliare via la parte attorno al punto ferito, per evitare che il veleno si diffonda nel resto del corpo.

A causa della mancanza di una autorità e della loro insofferenza reciproca, essi non conoscono alcuna tattica, e non sono neanche capaci di sostenere una battaglia rimanendo a piè fermo, o di presentarsi su un terreno aperto e pianeggiante. Se capita che si faccino coraggio nel momento di attaccare, avanzano fino a breve distanza urlando: se i loro opponenti non resistono al frastuono, allora attaccano con violenza; altrimenti volgono in fuga da soli, non essendo desiderosi di saggiare la forze del nemico nel combattimento ravvicinato e fuggono verso i boschi, dove mantengono un grande vantaggio per la loro abilità nel combattere in luoghi così ristretti. Spesso quando trasportano il bottino lo abbandonano fingendo di aver paura e fuggono nei boschi, e quando i loro assalitori si disperdono per il saccheggio escono fuori e li distruggono facilmente. Sono molto inclini ad applicare questo trucco, deliberatamente e in vari modi, per adescare i loro nemici.

Sono assolutamente sleali e non hanno alcun rispetto per i patti, che accettano più per paura che per ottenere dei vantaggi. Quando c’è tra di loro diversità di opinioni, o non trovano un accordo comune oppure quando solo alcuni di loro lo fanno, gli altri predono subito posizione contro quello che è stato deciso poiché, essendo sempre in disaccordo, nessuno vuole cedere all’altro.

In battaglia essi si trovano in difficoltà sotto il tiro delle frecce, o se vengono attaccati improvvisamente e da più direzioni, o nel combattimento corpo a corpo con la fanteria, soprattutto leggera, nel disporsi su terreni aperti e privi di ostacoli. E’ dunque necessario schierare una forza sia di cavalleria che di fanteria, soprattutto truppe armate alla leggera o lanciatori di giavellotti, e preparare grandi quantità di proiettili, non solo frecce ma anche altre armi da lancio. (…)

Le offensive contro di loro devono essere condotte in inverno piuttosto che in estate, quando non possono nascondersi facilmente tra gli alberi spogli, quando le tracce dei fuggitivi si possono riconoscere nella neve, quando le loro case appaiono misere e indifese e quando è facile attraversare i fiumi a causa del gelo. La maggior parte degli animali e del materiale non indispensabile deve essere lascito indietro in un luogo più sicuro, con una scorta adeguata al comando di un ufficiale. Le imbarcazioni devono essere ancorate in luoghi strategici. (…)

Se si presenta l’occasione di una battaglia, non si deve formare la linea principale troppo profonda contro di loro, né prestare attenzione solo agli attacchi frontali, ma anche a quelli provenienti da altre direzioni. Se il nemico occupa una posizione più forte con la retroguardia ben protetta per non darci la possibilità di accerchiarli o di attaccarli sui fianchi o alle spalle, allora è necessario tenere delle truppe nascoste, fare in modo che altre truppe fingano una ritirata davanti a loro, in modo che, indotti dalla prospettiva di un inseguimento, possano abbandonare la loro buona posizione difensiva e solo allora rivolgersi contro di loro, mentre le truppe nascoste escono fuori per attaccarli. Al momento che tra di loro ci sono molti re sempre in lotta l’uno con l’altro non è difficile convincere qualcuno di loro con la persuasione o con dei regali, soprattutto quelli nei territori più vicini al confine, e poi attaccare gli altri in modo che la loro ostilità comune non li ricompatti o li faccia riunire sotto un solo capo. (…) Nell’attraversamento di fiumi o di altri luoghi stretti è necessario che la retroguardia sia pronta ad agire in qualsiasi momento, schierata come consente il terreno. Infatti ci si possono attendere attacchi ogni volta che la forza è divisa, e le truppe che si trovano davanti non possono portare aiuto alla retroguardia. Gli attacchi di sorpresa contro il nemico possono essere condotti seguendo la consueta tattica: un reparto si avvicina al loro fronte principale e li provoca, mentre un altro reparto, di cavalleria o di fanteria, si apposta in segreto alle loro spalle lungo la strada dove è prevista la fuga, in modo che il nemico che ha evitato di impegnarsi o che fugge al primo assalto, si imbatta in modo inatteso nell’altro reparto. In estate non deve diminuire la pressione contro di loro, in modo da saccheggiare in quel periodo le aree più aperte e libere, e bisogna puntare a trattenersi nel loro territorio, per consentire ai Romani che sono prigionieri presso di loro di fuggire facilmente; il fogliame fitto tipico dell’estate rende infatti abbastanza semplice per i prigionieri la fuga senza preoccupazioni. (….)

Gli insediamenti di Slavi si trovano molto vicini al punto che non esiste spazio significativo tra di loro e inoltre confinano con foreste, paludi e canneti. Perciò quel che generalmente accade nel caso di invasioni del loro territorio è che l’intero esercito si ferma nel loro primo insediamento e viene tenuto impegnato lì, mentre gli altri insediamenti vicini, alla notizia dell’invasione fuggono facilmente con i loro avveri nelle vicine foreste, i loro guerrieri allora tornano indietro pronti a combattere e colgono l’occasione per attaccare i soldati stando al coperto, il che impedisce ad una qualsiasi forza d’invasione di infliggere loro dei danni. È per questi motivi che bisogna condurre attacchi a sorpresa contro di loro, soprattutto in luoghi inattesi, organizzando in anticipo l’ordine di marcia in luoghi stretti. Quando si è portati a termine un attraversamento senza essere stati scoperti , se l’attacco può essere condotto da due direzioni, l’esercito si deve dividere in due parti.(…) Entrambi devono avanzare l’una verso l’altra, distruggendo e saccheggiando il territorio compreso tra di loro fino a quando si incontrano in un luogo prestabilito, dove pongono il campo. In questo modo l’attacco viene condotto con successo e il nemico che fugge da una colonna cade inaspettatamente nelle mani dell’altra, senza essere in grado di radunarsi.

Se invece esiste una sola strada percorribile attraverso cui attaccare gli insediamenti, l’esercito deve essere ancora diviso (….)”.

La lunga descrizione degli Slavi da parte dell’imperatore bizantino, che scrive nella seconda metà del VI secolo, coincide con la descrizione dell’arrivo degli Slavi a Siponto che ne fa Paolo Diacono, visto che egli dice che appena sbarcati si danno da fare per preparare degli agguati intorno al proprio accampamento. Se consideriamo la prossimità del Monte Gargano, ne possiamo dedurre che gli Slavi si fossero acquartierati tra i boschi del promontorio, molto esteso e con fitta vegetazione, e che avessero preparato delle trappole per difendersi da incursioni esterne.

Tuttavia: da dove provenivano le navi degli Slavi?

In questo periodo gli Slavi erano in aperto contrasto con l’Impero, e benché vi siano diverse fonti che attestano come dietro questi conflitti vi fosse il Khaganato Avaro, non si può pensare che gli Slavi fossero un popolo unico. Divisi in diverse tribù con capi specifici, essi erano più una sorta di confederazione piuttosto che un unicum omogeneo. Le navi in questioni furono molto probabilmente conquistate dagli Slavi che le usarono per l’assalto a Siponto, ma quasi sicuramente chi conduceva le navi doveva essere stato un cittadino dell’impero se non addirittura un ufficiale. Senza scadere in complottismi di sorta, è lecito pensare che i capi dei predoni Slavi avessero stretto accordi con questi bizantini, riuscendo ad avere valide informazioni sui territori meridionali e dell’adriatico. Siamo di fronte una vera e propria scorreria di predoni tatticamente organizzati.

La differenza rispetto al sistema federativo che aveva retto gli equilibri pannonici nei secoli precedenti sono ben chiari. I Bizantini non avevano la capacità di riorganizzare la macchina statale per incorporare nuovamente dei federati, mentre il khaganato non aveva bisogno di cavilli burocratici, la frusta e la spada erano strumenti più che adeguati per la gestione della “marea slava”. Ma gli Slavi non erano semplici schiavi militari. Come abbiamo già detto alle tribù più forti veniva lasciata un ampia autonomia e spirito di intraprendenza che era la virtù fondamentale dei capi predoni.

La risposta dei Longobardi non si lasciò attendere. Qui però il racconto di Paolo Diacono espone in maniera alquanto nebulosa i fatti :

Quando Aio, assenti Radoaldo e Grimoaldo, mosse contro di loro per cacciarli, il suo cavallo cadde in una di queste fosse e gli Slavi gli si precipitarono sopra: così fu ucciso insieme con diversi altri. Come ebbe notizia dell’accaduto, Radoaldo accorse subito e si mise a parlare con gli Slavi nella loro stessa lingua. Dopo averli così resi più incerti nel combattere, piombò all’improvviso su di loro e li abbattè con grande strage,vendicando la morte di Aio e costringendo i nemici rimasti a fuggire dal territorio8.”

Un gran numero di interrogativi balzano immediatamente agli occhi.

Vedendo la velocità degli eventi, Radoaldo e Grimoaldo dovevano far parte dell’esercito di Aio che mosse contro gli Slavi, anche perchè essendo i reggenti avrebbero dovuto accompagnare il duca negli spostamenti militari. Non sappiamo come mai non fossero presenti nel momento della carica di Aio, forse effettivamente il duca era stato esortato dai nobili ad un assalto contro l’accampamento Slavo. Questo scontr