I protagonisti

ARECHI II

Arechi II è stato duca e principe di Benevento.

Proveniva da una famiglia di rango ducale, probabilmente originaria del Friuli, ma è certo che sia cresciuto a Benevento. Nel 758, giovanissimo, venne scelto e nominato d’autorità duca dal re Desiderio, intento a soffocare l’indipendenza del territorio beneventano e a ristabilire la propria autorità sostituendo il ribelle Liutprando con un uomo a lui fedele. Sempre per questioni di politica interna, il suo legame con la famiglia reale venne rafforzato attraverso il matrimonio con Adelperga, una delle figlie di Desiderio. Eppure, nonostante l’investitura imposta dall’alto, Arechi riuscì a conquistarsi il favore del popolo beneventano grazie alle sue qualità di uomo e di statista. Storici ed eruditi come Paolo Diacono, Erchemperto e l’Anonimo Salernitano infatti, lo descrivono come un personaggio quasi mitico, di bell’aspetto, fiero, coraggioso, saggio, nobile nello spirito, estremamente colto e profondamente devoto. Le sue doti le dimostrò fin da subito negli anni di reggenza del ducato, perseguendo con determinazione il rafforzamento e il mantenimento dell’indipendenza e dell’autorevolezza del proprio governo, sia rispetto alle potenze vicine, sia rispetto alla capitale longobarda. Fin tanto che Desiderio cercò di tramare contro l’asse franco-papale accordandosi segretamente coi bizantini, Arechi costituì per lui un tramite diplomatico molto efficace. Lo dimostrerebbe l’ambasceria che il duca inviò nel 763 a Costantinopoli, guidata dal gastaldo Gualtari, il quale tornò a Benevento con le reliquie di S. Eliano, –  uno dei 40 soldati martiri di Sebaste – testimonianza inequivocabile della rinnovata amicizia con l’impero bizantino ed anche della buona riuscita della missione politica. Ma, una volta sfumata la possibilità di costruire una salda alleanza longobardo-bizantina, Arechi non esitò a riaccendere le ostilità con il ducato napoletano, informalmente dipendente da Bisanzio e da tempo avversato dai Longobardi per il conteso accesso al mare e il dominio su tutta l’Italia meridionale. Nel 765 il duca beneventano sconfisse i Napoletani in battaglia e li costrinse a subire un trattato di pace costoso e pesante, consistente nel pagamento di un tributo annuo garantito sulla testa del piccolo Cesario, figlio del duca di Napoli Stefano, che venne inviato come ostaggio a Benevento. Negli anni seguenti, senza l’uso delle armi ma con altrettanta ostinazione, Arechi resistette alle pressioni dell’altro vicino, la Sede apostolica, disobbedendo in più occasioni alle richieste papali di restituire i possedimenti di S.Pietro detenuti dal territorio beneventano, e non arretrò dal suo netto rifiuto anche quando era il re Desiderio a imporglielo.

Il tempo per mostrare tutto il suo orgoglio e per difendere l’autonomia del ducato arrivò con l’assalto carolingio al cuore del regno longobardo, l’assedio di Pavia del 774. La deposizione di Desiderio, il suo esilio in Francia e la fuga di Adelchi, gli consentirono di diventare l’estremo baluardo della gens Langobardorum. Diversamente dai duchi del Friuli, di Spoleto e delle città longobarde della pentapoli, Arechi non si prestò ad un umiliante atto di sottomissione a Carlo Magno ma, al contrario, nello stesso 774 si fece consacrare principe dai suoi vescovi e ne assunse col tempo tutti gli attributi. Cintosi il capo del diadema regale, legiferò, nominò abati e vescovi, concesse privilegi, impose il servizio militare, batté moneta con la sua effige ed amministrò lo Stato dal sacrum palatium attraverso i suoi funzionari. Mantenne salda la propria autorità riuscendo a non vivere all’ombra di Carlo, il quale, nonostante le continue sollecitazioni del papa Adriano I ad intervenire in Italia meridionale per frenare l’impudenza del principe beneventano, pare che ne avesse profondo rispetto. Del resto, solo diversi anni dopo, ovvero nel 787, il re franco decise di varcare i confini d’oltralpe e marciare verso il sud della penisola per risolvere le secolari controversie fra il ducato beneventano e la Sede apostolica, e per stabilizzare una situazione politica minacciata dal riaccendersi della conflittualità tra i Beneventani e i Napoletani in seguito all’invasione e alla devastazione del territorio di Amalfi da parte di Arechi avvenuta qualche anno prima. L’esercito napoletano, giunto in soccorso degli amalfitani, questa volta riuscì a sconfiggere le schiere longobarde costringendole alla fuga, ma le ostilità terminarono solo con la temuta calata dei Franchi. Pressato dall’arrivo di Carlo Magno a Roma, Arechi sottoscrisse un trattato di pace coi Napoletani con il quale scioglieva l’antica disputa sulla Liburia, l’attuale Terra di Lavoro, disciplinandone l’amministrazione e, in segno di amicizia e di buona fede, donò alla basilica di S. Gennaro alcuni preziosi insieme alla terra di Pianura presso Pozzuoli. Inoltre, per contenere l’invasione franca e guadagnare tempo, Arechi inviò a Roma suo figlio Romualdo per omaggiare Carlo con dei doni e per garantirgli la sua totale sottomissione se avesse risparmiato il suolo beneventano. Nel frattempo, rafforzò le difese militari e si preparò alla battaglia. La missione diplomatica non andò a buon fine poiché Carlo, spinto con molta probabilità dalle pressioni del papa e dalla necessità di ribadire la propria egemonia con la forza, tenne come ostaggio Romualdo e marciò con l’esercito verso il principato, mentre Arechi trovava rifugio nella roccaforte di Salerno. Fermatosi a Capua per sferrare l’attacco, il re franco venne raggiunto da un’altra richiesta di pace da parte di Arechi, stavolta per bocca di un’ambasceria guidata dal vescovo di Benevento, Davide. Carlo decise allora di sospendere la missione militare e di concedergli la pace, imponendogli però condizioni molto dure come la corresponsione di un tributo annuo, la cessione alla Chiesa delle terre di S. Pietro del ducato di Benevento e di Salerno e, soprattutto, obbligandolo a prestare giuramento di fedeltà e di obbedienza alla sua corona. Come garanzia del rispetto del trattato, Arechi fu costretto a consegnare dodici ostaggi tra i quali i figli Grimoaldo e Adalgisa, ottenendo in cambio la liberazione del figlio maggiore Romualdo. Dopo aver ristabilito l’ordine, Carlo nell’aprile del 787 ritornò in Francia, mentre Arechi morì il 27 agosto dello stesso anno a Salerno dopo aver sofferto anche la perdita del primogenito Romualdo.

La sua reggenza ha rappresentato per il ducato un lungo trentennio di magnificenza artistica. Da profondo conoscitore del mondo classico, letterato e poeta, Arechi riuscì a trasformare la città di Benevento in un centro culturale e politico di primaria importanza nell’Europa dell’alto medioevo. Alla sua corte accolse artisti e letterati, primo fra tutti lo storico Paolo Diacono che fu precettore della famiglia ducale cedendo poi il ruolo al giovane vescovo Davide, anch’egli fine cultore delle bellezze dell’intelletto. Si fece promotore dell’istituzione di una schola palatina per istruire ed educare i suoi figli e quelli degli altri nobili, favorì e incitò lo scambio di manoscritti tra le officine scrittorie di Benevento e le abbazie di Montecassino e S. Vincenzo al Volturno creando, con molta probabilità, le premesse per la canonizzazione della scrittura beneventana, sorta alla fine dell’VIII sec. e diffusasi fino al IX sec. nell’Italia meridionale e nella Dalmazia fino al XIII sec.

Arricchì la città con una perla dell’arte e dell’architettura medievale, la chiesa di S. Sofia, fondata da Gisulfo II e da lui ultimata nel 760, espressione della sua profonda religiosità e simbolo del suo potere politico-economico. Intitolata alla Santa Sapienza come la basilica di Costantinopoli, divenne il santuario nazionale del ducato ed egli ne amplificò il valore trasferendovi le reliquie di numerosi santi – soldati, confessori e martiri –  in segno di pia devozione ma, soprattutto, per conferire sacralità al proprio dominio. Accanto alla chiesa, inoltre, istituì un monastero benedettino femminile che affidò alla sorella badessa Gariberga e che divenne uno dei centri economici più floridi del ducato. La sua prolifica attività edilizia non fu solo di taglio religioso e si concentrò su costruzioni militari e fortificazioni, in primis l’inespugnabile castello di Salerno, e sullo sviluppo urbanistico di Benevento, assecondandone e promuovendone la ricca economia artigianale e commerciale. Ampliando la cinta muraria in direzione dell’attuale via Torre della Catena, accorpò al nucleo abitativo una parte della città romana e creò un nuovo quartiere, la Civitas Nova, trasformato in vero e proprio distretto manifatturiero.

Arechi senza dubbio ha precorso i tempi, incarnando la figura di principe illuminato ante litteram, attento al progresso culturale della propria terra quanto a quello economico; prudente in politica estera e combattivo nel momento in cui vi era in gioco l’espansione del principato e la difesa della sua integrità; magnanimo rispetto ai suoi predecessori (Rotari, Grimoaldo, Liutprando, Rachis e Astolfo) nel legiferare con i suoi 17 Capitula, norme con un più elevato senso della giustizia, da contestualizzare comunque nella dura lex medievale; sincero devoto e, al tempo stesso, capace di utilizzare politicamente la religiosità. Con la sua saggezza il ducato e la stessa città di Benevento hanno conosciuto una grandezza e una centralità mai più vissuta.

 

 

DESIDERIO

Desiderio è stato l’ultimo re dei Longobardi.

Proveniva dalla città di Brescia, dove possedeva e amministrava diversi fondi e dove eresse nel 753, con la moglie Ansa, il monastero di S. Salvatore, trasformato, nel corso degli anni, in un vero e proprio strumento di potere politico-economico di famiglia, arricchito con donazioni di natura privata e fiscale e posto al vertice giurisdizionale di una serie di monasteri fondati in Lombardia, Toscana ed Emilia. Prima di indossare la corona regale, fu comes stabuli alla corte del re Astolfo e, successivamente, ricoprì la carica di duca nella Tuscia longobarda, l’attuale Toscana. Alla morte senza eredi di Astolfo, irruppe nel vuoto di potere e contese il trono con Rachis, fratello del defunto re, il quale, dopo aver abdicato nel 749 per vestire i panni di monaco benedettino, tentò di indossare nuovamente le vesti di sovrano. Il conflitto fra i due sembrò travalicare subito il naturale scontro tra pretendenti al trono, diventando un conflitto tra due diverse linee politiche: l’una, incarnata dalla nobiltà dell’Italia settentrionale e fatta propria da Rachis, che aspirava a rinsaldare con la forza il dominio longobardo nella penisola, perseguendo la politica conflittuale con il papato portata avanti da Astolfo e, prima di lui, da Liutprando; l’altra, più cauta e, potremmo dire, “realista”, sposata da Desiderio il quale, riconoscendo il dominio temporale dei papi e la superiorità militare dei Franchi, puntava al mantenimento del regno longobardo attraverso la collaborazione con il papato e la non belligeranza col popolo franco. Per dare concretezza alla sua visione strategica e per ottenere il trono, Desiderio sottoscrisse un accordo col pontefice Stefano II, consistente nel rispetto dei trattati di pace firmati da Astolfo e nella cessione a Roma di città e territori bizantini conquistati da Liutprando, in cambio del sostegno papale alla sua incoronazione. Il solo invio di messi del papa a Rachis e a Pipino, re dei Franchi, si rivelarono sufficienti ad allontanare il rivale, che rientrò nel monastero di Montecassino, e a far sì che Desiderio diventasse re dei Longobardi nel 757, a prezzo, però, di una sostanziale subordinazione politica al papato e al regno franco. Questo vincolo di fedeltà, tuttavia, non gli impedì di disattendere in parte gli accordi presi, riconsegnando Ferrara, Faenza e i territori sottratti alla chiesa romana nella pentapoli, ma mantenendo sotto il suo controllo gran parte delle città promesse a Stefano II; né lo distolse dal tramare nel 758 contro il pontefice, offrendo a Bisanzio il suo sostegno militare per reintrodurre la sovranità bizantina nei territori spettanti a Roma; né, tantomeno, gli impedì di sfidare a viso aperto Pipino e il papa, ripristinando, nello stesso  758, il dominio regio nei ducati longobardi di Spoleto e di Benevento, tradizionalmente autonomi rispetto al regno nazionale e che, alla morte del re Astolfo, avevano assunto una dichiarata posizione filopapale e filofranca. Con l’uso della forza Desiderio defenestrò prima il duca spoletino Alboino, imprigionandolo, e poi andò alla volta del ducato beneventano, costringendo il duca Liutprando e il suo reggente Giovanni a fuggire verso Otranto e nominando al suo posto un giovane fidato, il nobile Arechi II. Proseguì nel consolidamento della sua posizione di comando nell’estate del 759 nominando coreggente del regno suo figlio Adelchi e, di fatto, rendendo dinastica la successione al trono. Negli anni seguenti continuò ad assumere un atteggiamento ambiguo nei confronti del papato, alternando interventi in difesa della Sede apostolica ad azioni offensive e sconfinamenti alle frontiere dei territori romani, senza arrivare mai allo scontro diretto. Inoltre, sfruttò in suo favore i problemi interni al regno franco – che impedivano a Pipino di intervenire in Italia per sostenere il pontefice nelle controversie territoriali – riuscendo a costringere nel 763 il papa Paolo I ad accordarsi con lui in merito all’amministrazione di alcune terre nella pentapoli, evitando, così, di rispettare i patti precedenti che lo obbligavano a privarsene totalmente in favore della Santa Sede. Con un gesto plateale, Desiderio suggellò quest’accordo andando a Roma a pregare sulle tombe degli Apostoli e riconoscendo le prerogative del papa sulle terre di San Pietro nel suo regno. Allo stesso tempo, dando uno smacco al re franco e senza soffrirne le conseguenze, diede in sposa la figlia Liutperga al duca di Baviera Tassilone, garantendosi come nuovo alleato un popolo che era appena entrato in guerra con Pipino.

Con mosse politiche prudenti e opportunistiche insieme, Desiderio riuscì in pochi anni di reggenza a rafforzare un regno che era stato appannato e ridotto al vassallaggio dalla potenza franco-papale, e l’occasione per dimostrarlo gli si presentò nel 767 alla morte di Papa Paolo I. Con un atto di forza intervenne nella tumultuosa successione al soglio pontificio, cercando addirittura di determinare l’elezione del nuovo papa. Accolse, infatti, la richiesta di sostegno e protezione avanzatagli da Cristoforo, il primicerio del papa, e da suo figlio Sergio, i quali, pur capeggiando il partito più influente a Roma essendo i massimi rappresentanti della burocrazia pontificia, vennero allontanati dalla città dal duca di Nepi Totone che, manu militari, impose l’elezione di suo fratello Costantino, un papa laico consacrato dai vescovi sotto la minaccia della spada. Desiderio organizzò il rientro a Roma di Cristoforo e Sergio, facendoli accompagnare da un prete longobardo, Valdiperto, e da alcuni contingenti militari di Spoleto. Nel luglio del 768 Sergio, il prete longobardo e i militari entrarono in città e ne presero possesso, dopo l’assassinio di Totone da parte degli stessi nobili che lo avevano sostenuto e dopo la cattura di Costantino. Valdiperto, sgombrato il campo, si affrettò ad eleggere il nuovo papa scegliendo il cappellano Filippo, ma il colpo di mano non gli riuscì poiché il primicerio Cristoforo spinse i nobili della sua fazione ad allontanarlo dal soglio pontificio e, una volto rientrato a Roma, egli stesso nominò finalmente il nuovo pontefice, Stefano III. Il sèguito della vicenda fu una lunga scia di sangue, fatta di torture e uccisioni di tutti i traditori del partito di Cristoforo e a farne le spese fu lo stesso Valdiperto, mutilato e lasciato morire in prigione.

Il tentativo fallito di influenzare l’elezione del papa non scoraggiò Desiderio dall’immischiarsi l’anno seguente in un’altra crisi esplosa in territorio pontificio, stavolta a Ravenna, dove la nobiltà militare, in aperto contrasto con l’autorità papale, nominò successore del defunto arcivescovo Sergio un laico, il funzionario arcivescovile Michele. L’elezione venne caldeggiata da Desiderio, il quale neanche in quest’occasione riuscì a spuntarla, poiché il papa obbligò i cittadini a destituirlo in favore dell’arcidiacono Leone.

Uscito indenne dalle ingerenze politiche nella terra di S. Pietro, Desiderio nel frattempo consolidò il legame con il popolo franco grazie alla scelta diplomatica della moglie di Pipino, Bertrada, la quale, dopo aver diviso il regno tra i figli Carlo e Carlomanno alla morte del marito nel 768, decise di rinsaldare l’amicizia con il popolo longobardo combinando il matrimonio di Carlo con una figlia di Desiderio (l’Ermengarda di Alessandro Manzoni). Elevato al rango di alleato e protettore del regno dei Franchi, continuò la sua parabola ascendente diventando addirittura il favorito del papa dopo aver sventato una congiura ordita ai suoi danni dal primicerio Cristoforo e da suo figlio Sergio. Questi ultimi, infatti, ostili alla “contaminazione” tra Franchi e Longobardi insita nell’alleanza matrimoniale tra Carlo e la figlia di Desiderio, cercarono di sfruttare i contrasti esistenti tra i due re franchi, invitando un messo di Carlomanno a Roma con al sèguito un contingente militare. Questo gesto permise a Desiderio nel 771 di marciare con il suo esercito verso la città santa, sostenendo militarmente una fazione di nobili romani avversi al primicerio, con a capo il cubicolario Paolo Afiarta. Dopo aver tentato invano di rapire il papa, Cristoforo e Sergio, braccati da Desiderio con il tacito consenso papale, non poterono far altro che consegnarsi al pontefice. Con la resa ottennero la libertà, ma vennero catturati e torturati da una banda composta da romani e longobardi. La morte raggiunse entrambi, Sergio dopo pochi giorni dalla cattura, Cristoforo assassinato dopo qualche mese.

La sagacia e la prontezza con cui Desiderio intervenne in difesa del pontefice si rivelarono essenziali per capovolgere il rapporto con la Sede apostolica, da sempre controverso, e suggellarono il momento più alto della sua politica. La fase di pace e di stabilità, tuttavia, durò poco, travolta dall’uscita di scena del giovane Carlomanno nel dicembre del 771 e da quella di papa Stefano III nel febbraio del 772. La morte di entrambi lasciò campo libero all’ambizioso Carlo che, immediatamente, si appropriò del regno del fratello, ristabilì un rapporto preferenziale con il nuovo pontefice Adriano I e, soprattutto, ruppe l’alleanza con i Longobardi nel peggiore dei modi, ripudiando la moglie ed arrecando un’offesa personale a Desiderio. La reazione del re longobardo non si fece attendere, dettata dalla sete di vendetta e dalla necessità di reagire con forza alla politica egemonica di Carlo che minacciava la sopravvivenza stessa della gens Langobardorum. Il primo atto fu quello di accogliere alla sua corte Gerberga, la vedova di Carlomanno, con i figli, per poi aprire una trattativa con il papa per la consacrazione dei due piccoli principi, illegittimamente privati del diritto al trono da Carlo. Per pressare il pontefice e costringerlo all’atto dell’unzione, invase l’Esarcato, occupò Faenza, Comacchio, il ducato di Ferrara e devastò il territorio di Ravenna, minacciando di seguitarne l’occupazione se non fosse stato ricevuto dal papa. La risposta di Adriano fu quella di concedergli un incontro solo a patto di ottenere la restituzione di tutti i territori del patrimonio di San Pietro ancora controllati dal regno longobardo. Di fronte alle resistenze papali, Desiderio reagì in maniera più aggressiva penetrando nella pentapoli, attaccando con l’esercito toscano i territori situati a nord del ducato romano e puntando all’assedio della città santa. Mentre Adriano mandava una richiesta di aiuto militare a Carlo e si preparava alla difesa, il re longobardo, con il figlio Adelchi, gli eredi di Carlomanno e un contingente militare marciò verso Roma. L’onta di una scomunica papale lo fermò a Viterbo e lo spinse a rinunciare alla possibilità di far consacrare i due principi, ma non ad abbandonare l’atteggiamento conflittuale nei confronti del regno franco. Oppose, infatti, un netto rifiuto alla richiesta franca di restituire al patrimonio di San Pietro tutte le città occupate e questo suonò come una dichiarazione di guerra.

Nel marzo del 773 Carlo Magno, riunito l’esercito a Ginevra, organizzò l’avanzata in Italia dalla Valle d’Aosta e dal valico del Moncenisio in Val di Susa, riuscendo a fiaccare le difese longobarde alle Chiuse e costringendo Desiderio a fuggire a Pavia e Adelchi a rifugiarsi a Verona. Tuttavia, ancor prima della disfatta militare, Carlo aveva già incassato quella politica accogliendo alla sua corte gruppi di longobardi fuggiaschi e, man mano che avanzava nella sua campagna di conquista, assistette allo sgretolamento del regno nella corsa a Roma dei nobili spoletini e degli abitanti delle città longobarde nella pentapoli, disposti a tagliarsi i capelli  all’uso romano per dimostrare la loro totale sottomissione al papa. Con la fuga di Adelchi a Bisanzio, l’ultimo focolaio di resistenza fu la città di Pavia, dove Desiderio con la moglie Ansa resse per mesi all’assedio franco fino alla resa avvenuta all’inizio del 774. Fatto prigioniero e trasportato in Francia con la moglie, Desiderio finì i suoi giorni recluso in un monastero, probabilmente in quello di Corbie, mentre Carlo Magno, assumendo il titolo di re dei Franchi e dei Longobardi, archiviò definitivamente l’autonomia del regno.

 

 

ANSA

Ansa è stata la regina dei Longobardi, definita da Paolo Diacono “coniux pulcherrima” del re Desiderio.

Le sue origini familiari non sono certe, mentre abbiamo contezza del luogo in cui profuse la sua attività politica, la città di Brescia. Lì fondò con il marito il monastero di S. Michele e di S. Pietro, successivamente dedicato a S. Salvatore ed affidato alla figlia badessa, Anselperga. In seguito si rese protagonista di altre donazioni a favore di enti religiosi, nell’intento di rafforzare il potere regio intrecciando magnanimità cristiana e strategia politico-economica.

Da madre e da regina favorì il matrimonio della figlia Adelperga con Arechi II, di Liutperga con Tassilone e di una terza figlia – di nome Desiderata o Ermengarda – con Carlo Magno, tutte alleanze necessarie a rendere inossidabile il regno longobardo fondendolo con le corone di quello franco e dei ducati di Baviera e di Benevento. Come ultimo atto da regina e sposa fedele, fu al fianco di Desiderio durante l’assedio di Pavia nel 774 e nel momento della resa, inevitabile per una città messa in ginocchio da mesi di fame ed epidemie. Lo accompagnò nel suo ultimo viaggio in Francia, dove Carlo Magno gli riservò l’esilio in un monastero, durato fino alla morte, per poi tornare tristemente in Italia.

 

ADELPERGA

Adelperga è stata la moglie di Arechi II e duchessa di Benevento.

Figlia del re Desiderio e di Ansa, nacque probabilmente nella Tuscia quando il padre ricopriva la carica di duca e, successivamente, si trasferì a Pavia alla corte regale. Qui ebbe come precettore lo storico Paolo Diacono, già intellettuale di corte al tempo di Astolfo, che saziò la sua sete di conoscenza trasformandola in una donna virtuosa e profondamente istruita. Fu lui ad accompagnarla giovanissima a Benevento nel 762 per sposare Arechi, saldando così un’alleanza tra la capitale del regno e il ducato già sancita con la sua nomina a duca nel 758. Si trattò senz’altro di un matrimonio politico voluto da Desiderio, ma è certo che i due sposi condividevano e condivisero passioni e sensibilità culturali. Non è azzardato affermarlo se consideriamo le parole d’elogio di Paolo Diacono per Adelperga che descrivono le doti di questa donna, lasciandoci intendere che abbia svolto un ruolo non marginale nella politica culturale del ducato. Per lei compose nel 763 un carme acrostico sulle sei età del mondo dal titolo A principio saeculorum usque ad diluvium, nel quale la omaggia con le parole “Adelperga pia” composte con le lettere iniziali di ciascuna strofa, e in un verso la definisce “luminosa consorte” del “benigno duca Arechi”[1]. Ma è nella Historia Romana, scritta su richiesta della duchessa in un periodo compreso tra il 767 e il 774, che Paolo esprime con chiarezza il suo rispetto per le qualità e le volontà della sovrana in una lettera dedicatoria premessa all’opera. In questa epistola scrive di aver integrato il Breviario di storia romana di Eutropio con passi della storia sacra per compiacere Adelperga, delusa perché “lo scrittore in quanto pagano” non aveva fatto alcun riferimento al culto cristiano, e precisa di aver proseguito nella narrazione “fino ai tempi dell’Augusto Giustinianeo, promettendo […] di continuare questa storia fino alla nostra età”[2], preannunciando così la sua opera più importante, l’Historia Langobardorum. Tutto questo per assolvere pienamente al suo dovere di precettore di un’allieva che, “a gara con l’eccellentissimo marito […] forse l’unico dei sovrani a tenere la palma del sapere”, “con acuta intelligenza e penetrantissimo amore” indaga “gli arcani pensieri dei saggi, così da avere in bell’evidenza le più preziose sentenze dei filosofi e le più belle citazioni dei poeti”, e che si dedica “con estremo interesse sia alle storie sacre che a quelle profane” [3]. È probabile che il suo “animo avido di conoscenza”[4] abbia sollecitato non solo la produzione storiografica di Paolo Diacono ma, evidentemente, anche la crescita culturale della città e del ducato. A confermarlo vi sono le parole dello storico Gregorovius che l’ha definita, in maniera enfatica, “la seconda donna d’Italia che nel Medio Evo abbia esercitato influenza sulla cultura degli studi”, precisando che “i primi quattro secoli che succedettero alla caduta dell’Impero Romano, furono in Italia illustrati da due sole donne germaniche, da Amalasunta figlia di Teodorico e da Adalperga figlia di Desiderio; la barbarie di quell’età è resa massimamente manifesta da questa mancanza di donne per ingegno eminenti”[5].

Le sue capacità andarono ben oltre il campo delle lettere e della filosofia quando, alla morte di Arechi nel 787, dovette reggere le sorti del principato. Nonostante il dolore per la morte del marito, preceduta solo poco tempo prima da quella del primogenito Romualdo, Adelperga con lucidità e determinazione riuscì a salvare il territorio beneventano dalle mire di suo fratello Adelchi, alleato dei Bizantini, convincendo Carlo Magno e i suoi messi a liberare il figlio Grimoaldo, ostaggio in Francia, per permettergli di succedere al padre nella reggenza del ducato. Rientrato a Benevento nel 788, Grimoaldo, pur dovendo riconoscere ufficialmente la propria sudditanza alla sovranità franca, riuscì al pari del padre a preservare la dignità del suo trono fino all’806, anno in cui morì ponendo fine alla successione dinastica. Dopo di lui, infatti, subentrò al governo Grimoaldo IV che proveniva da un’altra famiglia.

Adelperga invece morì diversi anni prima, probabilmente senza riuscire a vedere l’inizio del nuovo secolo, dopo aver sostenuto il figlio nel governo dello Stato e dopo avergli trasmesso quella fierezza e quella risolutezza che avevano contraddistinto il suo animo e quello di Arechi II.

 

PAOLO DIACONO

Paolo Diacono è stato uno dei più importanti storici ed eruditi dell’altomedioevo.

Il suo nome era Paolo di Varnefrido e proveniva da un’antica famiglia longobarda del Friuli, la fara di Leupchis giunta in Italia con Alboino. Ancora molto giovane si trasferì a Pavia al seguito del duca friulano Rachis, divenuto re nel 744. Venne educato e istruito alla scuola di corte del grammatico Flaviano e, grazie alle sue doti e alla sua sensibilità letteraria, divenne un intellettuale organico alla corte reale anche sotto il re Astolfo. Con l’avvento al trono di Desiderio nel 757, da notaio e cancelliere di palazzo venne nominato precettore della figlia Adelperga alla quale resterà profondamente legato per molti anni. L’accompagnò a Benevento per sposare il duca Arechi nel 762 e qui si trattenne per un periodo piuttosto lungo, forse fino al 774 anno in cui si trasferì nell’abbazia di Montecassino. Restò abbastanza, tuttavia, per intensificare gli scambi letterari con la sua giovane allieva e per influenzare l’ambiente culturale della corte beneventana. È presumibile che proprio qui, approfittando della pace che regnava sotto il sapiente Arechi e su richiesta della stessa Adelperga, scrisse l’Historia Romana e, sempre qui, compose versi per esaltare i due giovani sovrani, nobili rappresentanti della stirpe longobarda.

Nel 774 la disfatta del suo popolo gli risultò così insopportabile da spingerlo a trovare rifugio nel monastero di Montecassino. Da lontano assistette all’estremo tentativo del fratello di riscattare l’onore della Langobardia Maior partecipando alla congiura antifranca del 776 guidata dal duca del Friuli Rodegauso, che venne sedata con facilità da Carlo Magno e repressa nel sangue. La cattura e la deportazione del fratello in Francia lo indusse a rompere l’isolamento monastico e a  recarsi di persona nel 782 da Carlo per implorarne la liberazione. Formulò la richiesta di grazia con un’elegia che, evidentemente, colpì gli eruditi della corte carolingia, come Alboino e il Paolino, e forse lo stesso re. La calda accoglienza che ricevette si trasformò in un chiaro invito a restare ad Aquisgrana, in cambio della libertà del fratello. Il suo soggiorno carolingio durò cinque anni e non è peregrino immaginare che lo abbia vissuto con imbarazzo e irritazione considerando il suo vivo senso di appartenenza alla gente longobarda, vinta e umiliata dai Franchi. Tuttavia, contribuì al prestigio culturale della corte, componendo versi e scrivendo un’opera storiografica sui vescovi di Metz.

Nel 787 rientrò a Montecassino e occupò il lento scorrere del tempo tra le mura abbaziali dedicandosi al suo capolavoro, l’Historia Langobardorum, la storia del suo popolo ormai ridotto allo stato di vassallaggio e di cui restava come unica testimonianza nazionalistica il ducato di Benevento, retto da Adelperga e da suo figlio Grimoaldo III. Nel rispetto della promessa fatta alla sua allieva nella dedica della Storia romana, decise di affidare alla scrittura la memoria delle gesta dei suoi avi raccontando il loro tempo fino alla morte del re Liutprando, avvenuta nel 744. Nella sua narrazione, a cavallo tra mitologia e storia, Paolo Diacono spesso ha taciuto sui rapporti difficili tra la sua gente e il papato, lasciando trapelare la contraddizione che viveva nell’essere monaco e longobardo insieme. Questa difficoltà forse lo spinse a terminare l’opera e a non affrontare il periodo più lacerante, quello dello scontro a viso aperto tra il regno di S. Pietro e quello di Astolfo e Desiderio. Comunque, grazie alla sua fatica storiografica sappiamo molto di più di un popolo che ha profondamente segnato il destino dell’Italia, traghettandola dall’Antichità al Medioevo e spingendola nell’orbita occidentale di un’Europa divisa fra Oriente bizantino e Occidente romano-germanico.

LA SCRITTURA BENEVENTANA

La morfologia della scrittura beneventana

Periodi di sviluppo della scrittura beneventana

Nel seguire lo sviluppo della scrittura beneventana dal punto di vista formale riconosciamo quattro periodi, che possono essere opportunamente definiti come segue:

1) il periodo dei tentativi (s. VIII ex. – IX ex.)

2) il periodo della formazione (s. IX ex. – X)

3) il periodo della maturità (s. XI in. – XII)

4) il periodo del declino (s. XII ex. – XIII)

Seguendo la storia di Montecassino il primo periodo corrisponde più o meno all’epoca pre-capuana, il secondo all’epoca capuana, il terzo al secolo che si apre con gli abati Atenolfo (1011-22) e Teobaldo (1022-1035) e si chiude con Desiderio (1058-1087) e Oderisio (1087-1105); l’ultimo periodo corrisponde all’età dell’abate Bernardo I (1264-1282) e i suoi immediati predecessori. Nel periodo della maturità l’epoca desideriana è la più importante, perché segna il punto più alto di sviluppo raggiunto.

Per evitare equivoci occorre premettere subito che le date che contraddistinguono i diversi periodi non vanno intese meccanicamente. Ad esempio un copista esperto del s. X può produrre un manoscritto di livello qualitativamente superiore a quello di un codice vergato da uno scriba meno addestrato del s. XI. Oppure un manoscritto di contenuto profano del s. XI può apparire meno elegante di un codice liturgico del s. X, se quest’ultimo è stato vergato con particolare cura. Tuttavia, anche dando il giusto peso a queste considerazioni, un attento esame dei manoscritti ci convincerà che il criterio più affidabile è il principio evolutivo. Non si tratta di fissare dei meccanici criteri di datazione, quanto di identificare dei periodi di sviluppo che riflettono il livello complessivamente raggiunto più che gli eccezionali risultati ottenuti da un singolo copista. Occorre sempre ricordare che, poiché sviluppo e decadenza sono stati più rapidi nei centri più attivi, un manoscritto prodotto in un centro minore può apparire più antico di un codice uscito da un grande scriptorium.

Il periodo dei tentativi

Nel primo periodo l’origine corsiva della scrittura appare chiaramente. La scrittura si presenta in uno stato di incertezza e fluidità. L’incertezza del copista si manifesta in vari modi: l’uso di forme diverse della stessa lettera, l’utilizzazione di legamenti alternata alla scrittura separata delle lettere, l’irregolarità nella distinzione delle due forme di ti. Uno scriba, o la sua scuola, usa la i alta secondo precise norme, un altro sembra ignorarle del tutto. Questi ondeggiamenti e incertezze si ritrovano ugualmente nel trattamento delle abbreviazioni e della punteggiatura, due elementi che si sviluppano sempre coerentemente con le forme grafiche. L’aspetto generale della scrittura è scarsamente calligrafico, la separazione delle parole poco osservata. Questo periodo comprende i manoscritti del secolo VIII e dei primi tre quarti del IX.

Il periodo della formazione

Il secondo periodo sembra iniziare verso la fine del s. IX, apparentemente come effetto di una cosciente riforma grafica. A partire da questo momento la scrittura appare pienamente formata, in possesso delle sue caratteristiche essenziali e decisa sulla via da percorrere. Le lettere hanno raggiunto delle forme normalizzate; alcuni legamenti con la i enclitica sono divenute obbligatori; l’uso della i alta si è stabilizzato. Sebbene le lettere siano ancora tondeggianti e tracciate con notevole libertà, l’apparenza generale è più calligrafica e un notevole progresso è stato realizzato nella regolarità dell’allineamento e nella separazione delle parole. Comincia a essere usata la tipica punteggiatura beneventana, compreso il caratteristico segno d’interrogazione. Si può dire che il periodo si chiuda con il s. X. Occorre comunque notare che, fino alla metà del s. X, le caratteristiche appena elencate non sono così definite come appaiono nella seconda metà dello stesso secolo. È difficile collocare esattamente nel tempo la fine del periodo, e la questione non appare poi così importante. Che si tratti della fine del s. XI o dell’inizio del XII, il significato fondamentale di quest’epoca nello sviluppo della scrittura è l’individuazione di tutte le sue caratteristiche essenziali, unita a una certa libertà di forme che la distingue dal rigore e dalla convenzionalità dei periodi successivi.

Il periodo della maturità

Questo è il più lungo dei quattro periodi, nel quale si trovano i prodotti di maggiore qualità e rifinitura. Gli studiosi hanno giustamente legato il nome di Desiderio (1058-1087) alla fase migliore della beneventana, poiché i più bei codici del s. XI sono nati grazie al suo zelo e amore per le lettere. Ho assimilato all’epoca desideriana il mezzo secolo precedente e quello seguente, poiché troviamo in essi esemplari che da una parte illustrano la graduale ascesa verso il punto più alto e dall’altra dimostrano un lentissimo, quasi impercettibile allontanamento dalla perfezione.

Per evitare ripetizioni, descriverò i risultati della sola età desideriana, restando inteso che i manoscritti del cinquantennio precedente mostrano le stesse caratteristiche in forma meno perfezionata, mentre gli esemplari del cinquantennio seguente evidenziano soltanto un’intensificazione o esagerazione delle caratteristiche desideriane che evolveranno poi nel manierismo.

Nei codici di epoca desideriana quindi colpisce innanzitutto la regolarità della scrittura. Le lettere sono eseguite con una tale mirabile precisione da sembrare riprodotte meccanicamente, senza tuttavia perdere la distinzione e la bellezza propri della migliore calligrafia.

I fattori che contribuiscono a questa regolarità sono: il perfetto allineamento e la misura nello spazio occupato da lettere e parole; l’alternanza fra tratti sottili e pieni, questi ultimi obliqui, a forma di losanga e paralleli fra di loro, caratteristiche che distinguono significativamente l’aspetto di una pagina in beneventana del periodo della maturità (con l’eccezione del tipo di Bari); la forma chiaramente ‘smussata’ dei tratti verticali delle lettere che scendono al di sotto del rigo di base; la congiunzione delle curve; l’uniformità della punteggiatura. Il copista di età desideriana appare insomma cosciente della sua abilità e felice di usarla, ma dimostra anche un controllo e una accuratezza magistrali, che rendono la sua opera il punto più alto raggiunto dalla beneventana.

Il periodo del declino

Il quarto periodo può essere fatto in pratica coincidere con il s. XIII, sebbene segni di decadenza siano evidenti già in molti codici del XII. Se il copista desideriano ha trasformato i tratti curvi dei suoi predecessori in losanghe, lo scriba del s. XIII abbandona queste ultime in favore di forme ancora più angolose. Ma non è solo questa angolosità che contraddistingue il declino. Sembra infatti che i copisti perdano la capacità di unire i tratti, con il risultato di spezzare le lettere e di presentare una forte senso di disintegrazione. L’angolosità e la tendenza a spezzare vanno di pari passo con una diminuita abilità nel vergare i diversi tipi di tratti: mancano insomma vigore e precisione. Tutto ciò non esclude tuttavia che si eseguano manoscritti di ottimo livello. Ma anche questi, sebbene a prima vista sembrino assomigliare ai codici del s. XI, a un esame più attento rivelano chiari segni di decadenza. L’allontanamento da tutti gli usi precedenti si nota nell’allentarsi della tradizione, nell’abbandono delle vecchie regole grafiche, nell’accettazione di caratteri propri di altre scuole, nell’adozione di innovazioni come il punto sulla i, il tratto di ‘a capo’, la rigatura a inchiostro o a piombo.

Gli elementi

Il periodo della scrittura beneventana cui siamo principalmente abituati è quello delle forme perfettamente sviluppate del s. XI. Queste forme presentano tuttavia un quadro di cui è difficile a prima vista distinguere gli elementi. L’uniformità e la monotonia dei tratti, l’artificiosa regolarità della loro successione e fusione sembrano nascondere completamente il tipo di scrittura, di cui appare solo lo stadio cristallizzato e altamente stereotipato. Nulla sarebbe più scorretto di ritenere la beneventana il risultato di un’arbitraria innovazione. Bisogna invece riconoscere che ogni lettera usata nel periodo desideriano non è altro che la forma più convenzionale e calligrafica della stessa lettera (compresi i legamenti) che troviamo nel s. VIII. In altre parole, le lettere del s. XI sono lo sviluppo logico e naturale di quelle che le hanno precedute, la cui morfologia non risulta significativamente modificata. Nella beneventana, a differenza di quasi tutte le altre scritture, si può infatti riconoscere una duratura ed eccezionale coerenza nello sviluppo.

Cosa dà allo stadio sviluppato della scrittura il suo caratteristico aspetto? Non soltanto l’uso delle forme corsive di cui abbiamo trattato e che la distinguono dalla carolina, poiché queste si trovano in altre minuscole calligrafiche ben diverse, per come si presentano, dalla beneventana sviluppata. L’aspetto tipico della beneventana sviluppata è anche, e in maggior misura, dovuto al modo in cui lo scriba beneventano usa la penna, in altre parole alla sua tecnica. Occorre qui considerare questo aspetto del lavoro del copista, e a questo fine dobbiamo suddividere le lettere nei loro elementi costitutivi e scendere nei dettagli.

Gli elementi importanti di cui si compongono le lettere sono sei: il tratto verticale corto (i), la curva, il tratto verticale lungo, il tratto verticale che scende sotto la linea di base, il tratto orizzontale che unisce diverse lettere, il tratto d’attacco.

Il tratto verticale corto (i)

Iniziamo con il tratto i, che è l’elemento di base di parecchie lettere brevi, il che significa che il modo in cui la i breve è tracciata nella scrittura sviluppata coincide con quello in cui sono tracciati i tratti costitutivi di m, n, u e in parte h e t.

Fin dal periodo iniziale si nota la tendenza a evitare di scrivere la i come un semplice tratto verticale. Invece di aprire e chiudere semplicemente la lettera, si preferisce praticare un approccio più morbido, consistente in un sottile tratto d’attacco da sinistra a destra e in un altrettanto minuto tratto di chiusura. Quando l’esigenza della calligraficità richiese una maggiore attenzione per il chiaroscuro, i due tratti estremi della i divennero quelli pieni della lettera. Dal momento che diverse altre lettere sono composte dagli stessi elementi della i, e per assicurare loro un uniforme aspetto calligrafico, al tratto pieno fu attribuita una cura particolare, tanto che in effetti esso diventa sempre più uniforme man mano che la scrittura si sviluppa. La forma precisa del tratto pieno (ed effettivamente esso assume una forma definita) fu largamente condizionata dal normale aspetto della i. Il tratto pieno superiore discende da sinistra a destra per dare l’aspetto di un sottile tratto d’attacco, mentre quello pieno inferiore discende anch’esso da sinistra a destra per assomigliare al tratto di chiusura, volto leggermente verso l’alto. Solo il centro della lettera rimane sottile, . La forma del tratto pieno dipende da quella della punta della penna. Il copista beneventano scriveva con una penna dalla punta tagliata obliquamente, con il lato lungo a destra rispetto allo scriba. Considerati l’intento di ottenere il chiaroscuro, l’uso di una penna opportunamente tagliata e la forma della i breve, i tratti pieni, se rafforzati e fortemente in contrasto rispetto a quelli fini, devono assumere l’aspetto di una losanga obliqua: la i inizia quindi in un manoscritto desideriano con una spessa losanga, cui si unisce in basso un’altra losanga inclinata secondo lo stesso angolo della prima. Il punto di contatto fra le due losanghe costituisce il solo tratto sottile (l’effetto è dovuto al movimento alternato di pressione e rilascio della punta della penna, che rimane tuttavia sempre in contatto con il supporto). La losanga, o il tratto pieno della i, ha una funzione così importante da far ritenere, senza timore di esagerazione, che il chiaroscuro delle lettere curve si sia in qualche misura sviluppato analogamente, tanto da formare parte di lettere molto diverse dalla i, come ad esempio la t, naturalmente curva.

La curva

Consideriamo adesso il secondo elemento, la curva. Fra le tredici lettere che contribuisce a formare, osserviamo innanzitutto la più tipica, la o.

Sebbene questa lettera possa essere formata da un solo tratto, ha un aspetto più uniforme se costituita da due tratti. In questo caso ci attenderemmo che il punto di passaggio del chiaroscuro si trovasse nella parte centrale dei due archi. Il confronto di una o beneventana del periodo migliore con il chiaroscuro della stessa lettera in antiche iscrizioni o in esempi di grafica moderna metterà in luce una significativa differenza. Mentre nella o moderna la sezione più spessa è perpendicolare alla linea di base, in modo che lo spazio interno formi un’ellisse il cui asse principale è anch’esso perpendicolare alla base, lo spazio ellittico all’interno di una o beneventana del periodo migliore ha l’asse principale obliquo e inclinato a sinistra. (Lo stesso si verifica nell’onciale di ottimo livello e in altre scritture). Il fatto è dovuto alla posizione della sezione più spessa dei tratti curvi, determinata a sua volta dalla forma della punta della penna. Le curve infatti non si ispessiscono a metà dei due archi della o, ma rispettivamente verso il margine inferiore dell’arco sinistro e quello superiore del destro; in questo modo, se portato all’estremo, il fenomeno fa assumere all’intera lettera la forma di una losanga poggiata su uno degli angoli, con i due lati lunghi molto spessi e quelli corti molto sottili, .

Ciò che è vero dei due archi di o è anche vero degli archi che formano le lettere a, b, c, d, e, f, g, k, p, q, s, t. In tutte queste lettere i tratti spessi sono ovviamente quelli obliqui verso il basso, in modo da disporsi parallelamente alla losanga obliqua della i. Ciò spiega la straordinaria regolarità dell’aspetto dei manoscritti del periodo desideriano e anche più tardi.

Le aste ascendenti

Sono più lunghe e sottili nei manoscritti più antichi, più corte e tozze in quelli più tardi. La tendenza a ispessirle in alto si nota già nei primi codici, anche se si realizza nel secondo periodo. Nei manoscritti desideriani e in quelli più tardi si evidenzia una tendenza all’angolosità, dovuta alla marcata pressione della penna all’inizio della lettera. Nel periodo migliore le aste tendono a essere più dritte rispetto alla fase precedente o a quella seguente. Le lettere che presentamo aste alte sono b, d (quando non ha la forma onciale), h, k, i lunga e l.

Le aste discendenti

Le lettere con un’asta discendente sotto il rigo di base sono innanzitutto p e q e la forma enclitica di i (usata nei legamenti obbligatori ei, gi, li e ti), nonché, in misura minore, f, r e s. Tutte queste lettere nel periodo migliore presentano l’asta formata da un pesante tratto perpendicolare chiuso da un sottile tratto obliquo da destra a sinistra, che dà all’asta un aspetto smussato. L’effetto è determinato dal fatto che il copista non solleva la penna nel punto in cui termina il tratto pesante, ma fa in modo di staccarla gradualmente dal supporto scrittorio. Nei manoscritti dei primi due periodi (cioè fino al s. XI) le aste di p e q sono eseguite molto semplicemente; quelle della i lunga o enclitica curvano regolarmente.

Il tratto di collegamento orizzontale

Le lettere e, f, g, r e t appaiono unite alle lettere seguenti da tratti di collegamento. Nel caso di e e f quest’ultimo coincide con il tratto orizzontale. Nel caso di r non è altro che l’allungamento dell’estremità destra, in quello di t la parte destra del tratto orizzontale, in quello di g l’estremità superiore destra.

L’elemento è importante per due motivi: prima di tutto perché è una caratteristica costante, dal momento che (salvo in qualche caso per r) queste cinque lettere sono sempre unite alle seguenti tramite un tratto di collegamento; in secondo luogo perché nella beneventana matura quest’ultimo consiste in un pesante tratto orizzontale esattamente in linea con la parte superiore delle lettere brevi, in modo che una parola come regeret, ad esempio, che contiene tratti di collegamento per tutta la sua lunghezza, presenta un solo tratto orizzontale dall’estremità destra della r alla t, unendo così sette lettere, . Questa è una delle caratteristiche che rendono una pagina di beneventana matura allo stesso tempo regolare nell’aspetto e difficile da decifrare. La tendenza a far coincidere il tratto di collegamento con la linea immaginaria superiore del corpo delle lettere si nota già nel s. X.

Il tratto di attacco

Quattro lettere presentano il tratto di attacco: f, p, r e s. Nel caso di p esso è tracciato in cima all’asta, nelle altre circa a metà e consiste in un semplice punto, più o meno spesso. Nel periodo migliore appare più consistente. Il tratto è una caratteristica regolare delle quattro lettere, che collega con le cinque prima citate perché presentano il tratto di collegamento.

Questi sono gli elementi principali dell’alfabeto della beneventana. L’analisi finora compiuta spiega come la natura calligrafica della beneventana comporti il fatto che le lettere siano eseguite in parecchi tratti. Impiegando infatti tratti spessi, lo scriba beneventano era costretto a formare le lettere soprattutto con tratti eseguiti verso il basso (è impossibile infatti rendere spessi tratti che vanno verso l’alto); inoltre, vergare delle lettere mediante tratti verso il basso richiede necessariamente di sollevare più spesso la penna. Un esempio chiarirà il concetto: se per tracciare la o lo scriba si fosse limitato a ispessire il lato sinistro e continuare il tratto verso l’alto per chiudere la lettera, l’avrebbe completata in un solo tratto. Ma se entrambe le curve della o devono essere rese spesse, due tratti sono indispensabili. Questo principio si applica a tutte le lettere.

In questo modo si evidenzia una curiosa anomalia della beneventana, un’incongruenza fra la sua origine e la sua fase sviluppata. Pur piegando tipicamente elementi corsivi all’uso librario, essa è infatti anche quella la cui tecnica esecutiva si allontana maggiormente dalla prassi corsiva. Mentre quest’ultima si basa sul principio del minimo sforzo, il che comporta il minor allontanamento possibile della penna dal supporto, le lettere beneventane si possono ritenere formate con il massimo numero di tratti. Lo scriba deve sollevare la penna più volte per ogni lettera, usando il suo strumento come un pennello più che come una penna. Nel legamento obbligatorio gi si utilizzano non meno di sei tratti, contro i due del suo antenato corsivo.

Le lettere

Rispetto alla loro posizione sulla riga le lettere possono essere divise in diversi gruppi:

1. Lettere corte: a, c, i, m, n, o, r, t, u, x. Fra queste dieci a, m, n, o, t, u sono sempre corte, ma c può innalzarsi al di sopra della linea superiore del corpo delle lettere, i può scendere sotto la linea di base o innalzarsi al di sopra della linea superiore del corpo delle lettere, r può estendersi in alto o in basso rispetto all’usuale forma corta, x può scendere sotto il rigo.

2. Lettere con tratti verticali: b, d, h, k, i lunga, l. Fra queste lettere d ha due forme: quella onciale è priva del tratto verticale e spesso più corta delle altre cinque lettere.

3. Lettere che scendono al di sotto della linea di base: f, g, p, q, r, y (in alcuni periodi anche s e perfino i). Fra di esse p e q (ma anche r all’interno di una sillaba) scendono regolarmente al di sotto della linea di base, mentre f, g e y non altrettanto, talora affatto. Tutte le lettere, ad eccezione di g, si chiudono in basso con una linea diritta, che nel periodo maturo appare di solito smussata o termina con un tratto sottile.

4. Lettere che si innalzano leggermente al di sopra della linea superiore del corpo delle lettere: c (nella forma crestata), e, f, r, s, z.

A

È una delle lettere caratteristiche della scrittura. Nella prima fase (ss. VIII-IX) ha la forma aperta , vergata come due c vicine. Ma la forma chiusa , vergata come una o seguita da una c, appare molto presto. A partire dall’inizio del s. X e in seguito la forma chiusa è la regola, la forma aperta l’eccezione. Nella scrittura matura a si distingue dalla t solo per il tratto finale: nella t è orizzontale (coincidente con la linea immaginaria superiore del corpo delle lettere) e si collega alla lettera seguente, nella a si piega verso il basso.

La forma onciale, tipica della carolina, è usata solo in casi particolari, come in fine di riga se manca spazio per la a normale, in note marginali o glosse, dove si preferisce naturalmente la forma più economica, oppure all’inizio di una frase al posto di una maiuscola. La diminuita coscienza delle tradizioni della scrittura spiega la frequente presenza della forma onciale all’interno di riga.

B

Nei manoscritti più antichi il tratto verticale è relativamente sottile, nella fase matura appare più corto e chiaramente più spesso. La curva appare più frequentemente chiusa che aperta nei codici del s. IX. Dopo il primo terzo del s. XI la curva si chiude regolarmente.

C

Prevede due forme: quella ordinaria, consistente in un semplice tratto curvo, e quella meno frequente, che appare come due c sovrapposte . La seconda, chiamata ‘crestata’, discende direttamente dalla corsiva. È particolarmente frequente nei manoscritti più antichi, meno in quelli dei ss. X e XI. Si trova ancora sporadicamente nei migliori esemplari della fine del s. XI e dell’inizio del XII. Dopo appare raramente. La norma non si applica ai codici del tipo di Bari, che piuttosto curiosamente mostrano una preferenza per la c crestata. Alcuni copisti tendono a usarla in presenza di due c consecutive.

D

Si usano due forme, l’onciale e la carolina. La seconda presenta un tratto verticale, la prima un tratto ripiegato su se stesso. La forma normale nei codici beneventani è quella onciale, che nel periodo desideriano e successivamente è in pratica l’unica. Entrambe le forme appaiono insieme, occasionalmente perfino all’interno della stessa parola, in molti manoscritti anteriori al s. XI. Non sembra esservi alcuna regolarità nella scelta delle forme. Alcuni copisti mostrano una preferenza esclusiva per la forma carolina. Se si preferisce la forma onciale, si tende a usare la d diritta nelle abbreviazioni (come quelle per quod, idem o id est, secundum), ovviamente perché il tratto verticale si adatta meglio al tratto abbreviativo orizzontale.

E

L’occhiello o la curva chiusa superiore si estende caratteristicamente al di sopra dell’altezza normale della lettera corta. È un po’ più grande nella fase matura, tanto da raggiungere l’altezza di f, r o s. Il tratto che divide l’occhiello superiore da quello inferiore corre orizzontale lungo la linea immaginaria superiore del corpo delle lettere e permette l’aggancio alla lettera seguente.

F

Sale al di sopra delle lettere corte e, tranne che nel tipo di Bari, scende al di sotto della riga. Come r ed s presenta un piccolo e spesso tratto di attacco. Si collega alla lettera successiva mediante un tratto orizzontale che nella fase matura coincide con la linea immaginaria superiore del corpo delle lettere.

G

L’occhiello superiore è indifferentemente aperto o chiuso in tutte le fasi della beneventana. Quello inferiore è regolarmente aperto e scende di regola sotto la riga. Nei manoscritti più antichi questa parte della lettera finisce con una curva verso l’alto, in quelli del periodo desideriano e più tardi la curva è meno marcata. In alcuni codici la curva volge persino verso il basso. Il tratto orizzontale di connessione corre lungo la linea immaginaria superiore del corpo delle lettere dal punto più alto della curva alla lettera seguente.

H

La forma è quella ordinaria, con l’asta relativamente più spessa e corta nella scrittura matura. Il tratto che forma l’arco volge regolarmente verso l’esterno sul rigo di base.

I

Esistono due forme, ciascuna con il suo specifico uso:

(a) la i lunga, la forma alta di i, usata in posizione iniziale (a meno che la lettera seguente abbia un’asta sotto o sopra il rigo) e all’interno di una parola quando ha suono semivocalico. Differisce da l per il fatto che manca in basso del piccolo tratto rivolto in alto;

(b) la forma corta di i, usata in tutti gli altri casi (tranne quando è preceduta da e, f, g, r o t, nei quali casi si usa la forma enclitica).

K

Ha la forma di una h dall’arco leggermente più ampio. Nel punto in cui piega verso il basso, la curva è sormontata da un tratto simile a una virgola rovesciata, che fa assomigliare la lettera a una combinazione di h e c.

L

L’asta è più corta e spessa nella scrittura matura. Termina con un tratto verso l’alto che la differenzia dalla i lunga.

M

Nei manoscritti posteriori al s. IX i tre tratti che formano la lettera assomigliano a tre i consecutive, tutte più spesse in basso e volte a destra. Nei codici più antichi volge a destra solo il tratto finale.

N

Si sviluppa come la m: nei manoscritti più antichi volge a destra solo il secondo tratto.

O

Assume la forma ordinaria.

P

Assume la forma ordinaria. L’asta presenta in cima un piccolo tratto di attacco.

Q

Assume la forma ordinaria.

R

La lettera ha distinte fasi di sviluppo e costituisce quindi un importante criterio di datazione. In realtà è la forma della r finale che varia nei diversi periodi. Il suo tratto verticale è regolarmente corto e generalmente volto all’esterno nei manoscritti più antichi del s. XI. Esso è regolarmente lungo (scende cioè al di sotto del rigo), usualmente diritto e sempre più stretto nei codici del periodo migliore (cioè la seconda metà del s. XI) e più tardi. All’inizio del s. XI l’uso è incerto, tanto che nello stesso codice si trovano un copista che usa la vecchia forma della r finale e un altro quella nuova. Nei codici del tipo di Bari tuttavia la forma corta della r finale continua a essere usata ancora nel s. XII.

All’inizio o all’interno di una parola la r è lunga a meno che non sia seguita dalla lettera i, nel qual caso si unisce regolarmente a questa e ha l’asta breve. I codici che presentano la forma corta alla fine di una parola mostrano anche l’uso occasionale dell’asta breve alla fine di una sillaba all’interno di una parola. In tutti i periodi la lettera presenta un piccolo ingrossamento o tratto di attacco alla sinistra dell’asta. Il tratto superiore permette il collegamento con la lettera seguente. Nella r finale il tratto superiore termina con una curva verso l’alto, tracciata piuttosto liberamente nei codici anteriori al s. XI e in modo più controllato in quelli del periodo maturo.

La forma simile alla cifra arabica 2 è usata dapprima, come nell’onciale, esclusivamente nel legamento or dell’abbreviazione per troncamento -orum. Nel s. X la si trova irregolarmente dopo o anche all’interno di parola. Non diviene comunque frequente fino al s. XIII e anche allora molto probabilmente come risultato di influenze esterne. La forma soprascritta comincia a essere usata verso la fine del s. XI e guadagna gradualmente terreno, divenendo assai comune (anche in una forma simile) in codici del s. XIII.

S

La lettera si eleva al di sopra del livello delle lettere corte e termina con una curva verso il basso. L’asta usualmente scende al di sotto del rigo nei codici del periodo maturo, tranne che in quelli del tipo di Bari che presentano l’asta corta e volta alquanto all’esterno anche nel s. XII. Come f, p ed r, la s ha un piccolo tratto di attacco alla sinistra dell’asta.

Durante il s. XI si afferma l’uso di scrivere la s finale in una forma onciale soprascritta oppure come una grande lettera onciale sul rigo, quando la s è l’ultima lettera.

T

È una delle lettere caratteristiche della scrittura, chiaramente di origine corsiva. Viene tracciata usualmente in tre tratti, in quest’ordine: (1) un tratto curvo formato come la lettera c; (2) un tratto verticale formato come una i corta; (3) un tratto orizzontale tracciato lungo la linea superiore del corpo delle lettere, verso destra a partire dall’alto del tratto verticale. Il tratto verticale rappresenta l’asta della lettera, gli altri due tratti (tracciati nella corsiva senza sollevare la penna) l’elemento orizzontale. Il tratto curvo scende regolarmente fino al rigo dopo la metà del s. X, occasionalmente anche in manoscritti più antichi. Quando tocca la parte inferiore del tratto verticale forma una curva chiusa. Questa è la regola dopo il periodo maturo (s. XI ex.). Prima di allora la curva aperta è più comune.

Nella scrittura matura la t si differenzia dalla a per l’ultimo tratto. Nella t è orizzontale o leggermente volto verso l’alto quando è finale; nella a la parte corrispondente curva verso il basso.

La forma onciale, simile a quella della minuscola ordinaria, si presenta irregolarmente. Ma, come la a onciale, è usata solo in determinate circostanze, come in fine di riga, quando non vi è sufficiente spazio per la forma normale, oppure in glosse dense e aggiunte marginali, dove la forma meno ingombrante è più adatta. Questa forma, che si eleva usualmente al di sopra delle lettere corte, è più frequente nella scrittura matura, ma se ne trovano esempi anche nel s. IX.

U

Viene tracciata come due i consecutive, con la differenza che il primo tratto volge alla fine verso l’alto e tocca il successivo. La forma a v è irregolarmente usata soprascritta al fine di guadagnare spazio. Essa è più comune in codici del primo periodo.

W

Nei manoscritti anteriori al s. XI la lettera è resa da due u consecutive. Apparentemente essa non è usata prima della seconda metà del s. XI. I due tratti centrali si incrociano, assumendo la forma di un monogramma composto da due v.

X

È usualmente formata da tre tratti. Il tratto principale è una linea un po’ sinuosa inclinata a sinistra. A partire dalla metà di esso (spesso al di sotto della metà) parte un tratto più breve da destra a sinistra in basso, verso l’interno o l’esterno. L’ultimo tratto, formato come una virgola inversa, è vergato verso l’alto da sinistra a destra, chiudendosi con una curva verso il basso. Esso raggiunge il primo tratto usualmente al di sopra della metà e assume con la metà inferiore di questo una forma identica a una c.

Y

La forma ordinaria consiste in una parte formata come una v e in un tratto verticale sotto il rigo, vergato verso il basso a partire dalla cuspide della v, in direzione ora verticale, ora obliqua. Talora l’intera lettera si trova sul rigo. In alcuni codici, come il Registro Vaticano 1 dell’Archivio Segreto Vaticano, la lettera è tracciata in questo modo: il braccio destro scende in linea diritta e coincide con l’asta, mentre il braccio sinistro costituisce una linea orizzontale, perpendicolare all’asta. Il puntino sopra la lettera compare irregolarmente: non è usuale.

Z

Non si registra una forma regolare a causa della relativa rarità della lettera, ma esiste comunque una certa somiglianza fra le diverse versioni. La forma usuale differisce dalla z maiuscola per il fatto che il primo e l’ultimo tratto sono curvi, l’uno verso l’alto e l’altro verso il basso. Le differenti forme della lettera sono dovute principalmente alla variabilità della curva superiore, ma in parte anche alla maggiore o minore lunghezza della linea obliqua. La lettera assomiglia spesso a una g semionciale, salvo che per il fatto che la traversa orizzontale della z curva verso l’alto a sinistra.